Livatino: iniziata la “peregrinatio” della reliquia. Mons. Damiano: “Abbiamo bisogno di testimoni credenti e credibili”

Ha avuto inizio, da Canicattì, Domenica 19 settembre 2021, la “peregrinatio diocesana” della reliquia del Beato Rosario Angelo Livatino.

Il reliquiario, contenente la camicia intrisa di sangue indossata il giorno dell’assassinio, è arrivato da Agrigento, portato dal direttore del Centro per l’Evangelizzazione, che coordinerà e accompagnerà la reliquia nel pellegrinaggio per i 43 comuni dell’Arcidiocesi. La comunità ecclesiale e civile, si è ritrovata nella parrocchia Maria Ausiliatrice – “Oratorio don Bosco”. Subito dopo l’accoglienza ed il saluto del parroco e vicario-foraneo don Calogero Morgante, l’arcivescovo, mons. Alessandro Damiano, ha presieduto, nella 25ª domenica del tempo ordinario, la Celebrazione Eucaristica di ringraziamento per la beatificazione del Giudice martire, con un ricordo delle vittime innocenti della mafia.

Le parole dell’Arcivescovo Alessandro

Nell’omelia,  commentando il brano del Vangelo, «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà»ha detto: “Come Gesù, Rosario Livatino ha offerto la sua vita, ha ricevuto la grazia del martirio ed è entrato nella gloria della Gerusalemme nuova. Stasera – ha proseguito – ci ritroviamo, nella sua e nella nostra Canicattì, per ringraziare il Signore di questo dono. Avremmo dovuto farlo – ricorda – la domenica successiva al 9 maggio, ma l’andamento della situazione pandemica l’ha reso impossibile. Questo ritardo, però, è stato provvidenziale, perché nel contesto delle celebrazioni di questi giorni il ringraziamento per la sua beatificazione si intreccia con l’impegno a ravvivare la sua memoria, a promuovere la sua testimonianza e a seguire il suo esempio”. Facendo poi riferimento alla  peregrinatio ha ricordato come essa “ci permette di contemplare – nel sangue versato al momento del martirio – il segno tangibile del dono di sé vissuto fino alla fine”. Facendo, poi, riferimento al ricordo delle vittime innocenti di mafia, che nella Eucaristia sono stati commemorati ha proseguito evidenziando come il loro ricordo “ ci mette di fronte alla grave responsabilità della comunità — quella ecclesiale e quella civile insieme — di farsi carico di ogni forma di ingiustizia. E la “Settimana della legalità”, promossa dall’associazione “Amici del Giudice Rosario Angelo Livatino”, – ha detto – ci sollecita a riscoprire il valore educativo della figura del nostro Beato, non solo nell’ambito della fede, ma anche in quello della cultura e della vita sociale. Arricchita di tutti questi aspetti, la celebrazione – ha ricordato ai numerosi presenti – non segna solo la conclusione dell’iter che — a partire da questa città — ha portato Rosario Livatino agli onori degli altari, ma anche l’avvio di un processo di formazione delle coscienze che — ancora una volta a partire da questa città — deve rinnovare il volto e il destino del nostro territorio, chiamando in causa tutti: credenti e non credenti, operatori pastorali e responsabili delle istituzioni, associazioni e agenzie educative, a cominciare da quella prima e fondamentale cellula della vita comunitaria che è la famiglia”. Leggendo la testimonianza del beato Livatino, sullo sfondo della Parola proclamata, l’Arcivescovo, ha evidenziato come essa aiuta a definire alcuni punti fermi di questo processo. In particolare ne ha segnalato tre:

Il primo ripreso dal Vangelo, “presenta il discepolato come servizio. Ascoltando il testo di Marco – ha detto – colpisce la sproporzione — anzi, la contrapposizione — che c’è tra Gesù e i Dodici sul modo di intendere la figura del discepolo. Gesù ha appena annunciato la sua passione, dicendo di essere pronto a dare la sua vita, ma i Dodici non capiscono e discutono su chi tra loro sia il più grande. Anche a noi — ha detto  — capita spesso di ragionare così. In gioco c’è il posto che ognuno vuole occupare: il primo è quello di chi pensa solo a se stesso; l’ultimo è quello di chi mette gli altri prima di sé. Ma in gioco – ha proseguito – c’è anche il criterio per valutare le scelte, sia riguardo al posto da occupare sia riguardo alle azioni che il posto occupato richiede. Gli ultimi e i piccoli sono la «misura del regno», perché solo ascoltando i loro gemiti e prendendoci cura dei loro bisogni possiamo comprendere ed esercitare la misericordia di Dio. Di conseguenza, chi vuol essere primo deve farsi ultimo, perché altrimenti non può pensare e non può agire secondo Dio; e chi vuol essere più grande deve mettersi al servizio di tutti, a imitazione del Figlio dell’uomo, il quale «non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10,45).

Non potremmo capire – ha proseguito – l’intero profilo di Rosario Livatino al di fuori di questo capovolgimento dei valori e di questo ripensamento dei ruoli e delle funzioni, tanto nella vita privata quanto nella sfera pubblica e nell’esercizio della professione. Il suo stesso martirio – ha affermato –  resterebbe senza senso e potrebbe sembrare il fallimento finale di una serie di sconfitte. Ma sappiamo che non è così proprio perché l’educazione ricevuta in famiglia e la fede maturata nel tempo gli hanno dato una visione alta della realtà, della responsabilità e del dovere, ispirata al Vangelo e in netta contrapposizione con la mentalità corrente e con la logica del mondo. Se non siamo disposti a questa inversione di rotta — in cui di fatto consiste il primo passo della conversione — la nostra esistenza resterà disgregata e le nostre relazioni disordinate, in balìa del più forte di turno. Gli ultimi saranno sempre più marginalizzati e oppressi, mentre i prepotenti continueranno a contendersi i primi posti, in una lotta tra poveri dove nessuno vince e dove perdiamo tutti. E di questo — ciascuno per la sua parte — dovremo rendere conto a Dio, oltre che agli uomini: per ciò che facciamo e per ciò che omettiamo di fare, per ciò che diciamo e per ciò che preferiamo non dire, per ciò che reclamiamo a tutti i costi e per ciò che ipocritamente facciamo finta di non vedere. La seconda lettura – ha proseguito –  ci invita a scavare dentro i meccanismi della coscienza, per trovare le radici del male e innescare quella conversione tanto urgente quanto necessaria. Esse vanno ricercate nelle passioni che si agitano dentro di noi, creando una lacerazione interiore dalla quale poi dipendono le battaglie che intraprendiamo e le controversie che non sappiamo dirimere. San Giacomo ci parla di gelosia e spirito di contesa, di desideri insaziabili che spingono verso il possesso e di invidia incontenibile che genera insoddisfazione. Quando prendono il sopravvento, l’altro smette di essere fratello e diventa complice o rivale; e allora diventa impossibile parlare di fraternità e prossimità, di carità e condivisione, di bene comune e giustizia sociale. Purtroppo dobbiamo ammettere – ha affermato –  che questo succede troppo spesso. E non solo nei grandi fatti della cronaca nera o nella prassi abituale delle organizzazioni mafiose, ma anche in tante situazioni ordinarie che viviamo tutti i giorni, a cui forse ci siamo assuefatti al punto tale da ritenerle normali o da trovarvi le giustificazioni più accomodanti. Anche su questo – ha detto – la Parola di Dio ci chiede un cambiamento decisivo, suggerendoci un altro ribaltamento che si aggiunge a quello sul discepolato e ne costituisce il fondamento. Si tratta di anteporre alla stoltezza del mondo la sapienza che viene dall’alto e purifica le nostre passioni, che vorrei indicare come secondo punto fermo per un serio e fecondo processo di formazione delle coscienze. La sapienza che viene dall’alto è la fonte della vita nuova nello Spirito, per la quale la nostra volontà e il nostro impegno sono necessari, ma non sono sufficienti. Solo con la grazia di Dio, infatti, possiamo risanare i nostri sentimenti e correggere le nostre inclinazioni, per conformarci in tutto a Cristo, che è il modello perfetto dell’umanità…

Qui troviamo un altro tratto distintivo della figura di Rosario Livatino. Fin da piccolo, per la sua spiccata sensibilità, ha coltivato le virtù cardinali della prudenza e della giustizia, della fortezza e della temperanza. Ma queste sono state esaltate e potenziate da quelle teologali della fede, della speranza e della carità, alimentate attraverso la preghiera quotidiana, la meditazione assidua della Parola di Dio e la partecipazione costante all’Eucaristia. Così, nel suo discernimento sul bene e sui mezzi da impiegare per raggiungerlo e per difenderlo, si è sforzato di vedere ogni cosa — e soprattutto ogni persona — con gli occhi e con il cuore di Dio e ha chiesto a Lui di guidare le sue decisioni e il suo operato. Nell’amministrazione della giustizia non si è limitato a trovare le colpe e punire i colpevoli, ma si è fatto strumento di misericordia, perché gli oppressi fossero riscattati e gli oppressori redenti. Nelle prove e nelle avversità è stato fermo e perseverante, non solo per il suo altissimo senso civico, ma soprattutto per la fiducia incondizionata nel Signore e per il desiderio di seguirlo fedelmente sul cammino della croce. Nella sua caratura morale è stato irreprensibile, perché si è sforzato di dominare le passioni di cui parlavamo prima, ma lo ha fatto attraverso un continuo esercizio ascetico, che ha reso lucida la sua intelligenza e salda la sua volontà.

Abbiamo bisogno – ha continuato – di testimoni credenti e credibili come lui, di persone che come lui, il giusto che diventa pietra d’inciampo, diventino segno di contraddizione in mezzo alle contraddizioni della storia”. E in questo . ha proseguito –  vorrei segnalare un terzo punto fermo per l’impegno che insieme, stasera, ci assumiamo nel suo nome. Essere pietra d’inciampo e segno di contraddizione non significa mettersi contro qualcuno, come probabilmente pensano quelli che uccidono i profeti. Significa, al contrario, essere a favore di tutti e, proprio per questo, smascherare la cultura della morte e del peccato, svelare la logica della violenza e del sopruso, contrastare lo stile dell’ingiustizia e dell’illegalità. È chiaro che così si diventa scomodi, perché prima o poi si finisce per pestare i piedi a qualcuno, che farà di tutto per non lasciarseli pestare. Ma questo è il prezzo da pagare per essere veramente liberi e veramente liberatori.

Rosario Livatino – ha detto – ci insegna che le guerre non si vincono con altre guerre, da cui si esce sempre sconfitti. Si vincono con il coraggio della verità e la forza del bene, che provocano senza mancare di rispetto e interpellano senza venire allo scontro, anche a costo della vita. Nella prima lettura abbiamo sentito il discorso degli empi che si accordano per levare di mezzo il giusto diventato scomodo. È interessante notare che, mentre contestano la condotta del giusto, gli empi si accusano da se stessi: ammettono di essere colpevoli contro la legge e riconoscono di essere trasgressori nei confronti dell’educazione. E poi, quando decidono di perseguitarlo e di farlo morire, sono la sua mitezza e il suo spirito di sopportazione a completare l’opera, scuotendo la loro durezza e la loro insensibilità, anche di fronte al giusto ucciso ingiustamente. Esattamente così è stato per il nostro Beato.

Auguriamoci – ha concluso – che continui a essere delicatamente scomodo per tanti, a cominciare dalla sua Canicattì. Sappiamo che «un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua» (Mt 13,57). Ma ricordiamoci che «chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto» (Mt 10,41)”.

Al termine della celebrazione ha preso la parola il sindaco Ettore Di Ventura che ha voluto ricordare l’esempio del Giudice Livatino, ma anche Antonino e Stefano Saetta.La nostra Città, nei due Magistrati, ha un fulgido esempio nel cammino della legalità e della non violenza. Il loro sacrificio una ragione di riscatto per questa Città che è stata vittima, insieme alle famiglie Saetta e Livatino, della violenza mafiosa”. Non è mancato, inoltre, il ricordo per Pietro Ivano Nava, testimone oculare dell’assassinio di Rosario Livatino, a cui è stata conferita la Cittadinanza onoraria, come gesto di gratitudine nei confronti di un uomo che con coraggio ha reso la sua testimonianza; ma ancora la professoressa Ida Abate e in lei tutti coloro che hanno camminato e creduto. La beatificazione di Rosario Livatino – ha detto Di Ventura –  rende contemporanea la figura del Giudice canicattinese nel cammino dei singoli e delle comunità, per il servizio delle Istituzioni… La città è custode del vissuto di Rosario Livatino: i luoghi, le relazioni, quasi l’intimità della persona. Canicattì, dunque, ha il dovere della memoria, della riconoscenza, ma nello stesso tempo ha il dovere scuotere, alla luce del Beato Livatino, la coscienza democratica e rilanciare la cittadinanza attiva”. Infine il sindaco ha affidato al discernimento del vescovo  “la proposta dicustodire e venerare in una chiesa della città di Canicattì le spoglie mortali del Beato Livatino, per sottolineare come da una Città di periferia possa nascere il bene per il mondo; ed inoltre, si conserverebbe la unità del messaggio della esperienza personale di Livatino e della sua famiglia, di cui la Città è culla ed erede morale”.

È iniziata così la peregrinatio della reliquia che il 24 settembre ritornerà ad Agrigento per sostare nella Chiesa San Giuseppe, chiesa nella quale il Giudice sostava, ogni mattina, in preghiera prima di affrontare la giornata di lavoro nel vicino tribunale. Sabato 25 settembre, dopo la S. Messa delle ore 11:00, presieduta dall’Arcivescovo, sarà benedetto il monumento dedicato al Beato collocato in “largo Livatino” sotto la finestra della “stanza della memoria” dell’ex tribunale.

Don Giuseppe Cumbo depone la reliquia sul tavolo dello studio privato del Giudice nella casa di famiglia.
La sosta della reliquia a casa della famiglia Livatino. Suggestiva è stata la sosta il 21 settembre, giorno dell’assassinio nella casa di famiglia al termine della messa nella Chiesa San Domenico, presieduta dal vicario generale, don Giuseppe Cumbo . Dopo 31 anni – ha detto il Vicario – la camicia de Beato Rosario Livatino entra nella casa natale, da dove era uscita il 21 settembre 1990 senza farne più ritorno! “Siamo nel luogo della familiarità dove ha vissuto l’esperienza degli affetti più cari, l’attenzione nei confronti dei genitori e quella dei genitori nei suoi confronti. La reliquia è una camicia che quel giorno profumava delle cure di mamma Rosalia … è la camicia che indica la precisione e il decoro nel dover affrontare dignitosamente una giornata di lavoro”.

 

Carmelo Petrone