Dedicazione Cattedrale, Damiano: “Siamo pietre vive per un edificio spirituale, se restiamo uniti a Cristo, pietra viva”

Venerdì 6 settembre 2024 la Chiesa agrigentina ha celebrato la Solennità della Dedicazione della Basilica Cattedrale, chiesa-madre dell’Arcidiocesi e segno di unità. Alle ore 19:30 l’Arcivescovo, Alessandro, ha presieduto la Celebrazione Eucaristica che è stata preceduta, nell’Aula Magna del Seminario, da un momento di ascolto e confronto con il clero durante il quale, mons. Damiano, ha comunicato alcune istanze pastorali e offerto spunti di riflessione in vista del nuovo anno; al termine, inoltre, ha reso noto che don Marco Scirica sarà il nuovo vicario parrocchiale della Chiesa Madre di Sciacca e don Antonio Giuseppe Gucciardo lascia l’incarico di vicario parrocchiale della parrocchia B.M.V. dell’Itria di Favara per andare a ricoprire quello di parroco delle parrocchie Santa Teresa del Bambin Gesù e San Pietro Apostolo di Ribera e che padre Pilla Vijaya Kumar dei padri Guanelliani, domenica 22 settembre al termine della Messa di ringraziamento, lascerà la parrocchia della Provvidenza di Agrigento per andare a servire la Parrocchia Santa Maria Degli Angeli Ferentino,  diocesi di Frosinone Veroli Ferentino; al suo posto i Superiori presto provvederanno a nominare il collaboratore parrocchiale addetto all’oratorio. Quanto alla visita pastorale all’Arcidiocesi, mons. Damiano ha annunciato che riprenderà nel mese di ottobre dalla dalla Forania di Cammarata, che comprende i comuni di Casteltermini, San Giovanni Gemini­­.  Al momento assembleare hanno preso parte, collegati da remoto, don Carmelo Rizzo, parroco di Lampedusa, don Ignazio Bonsignore e don Angelo Porrello, missionari agrigentini in Albania che hanno offerto una riflessione e raccontato le attività pastorali che li vedono impegnati nella missione e del cammino percorso  a tre anni dal conferimento del mandato missionario alla prima equipe missionaria  – era il 5 settembre 2021 –  formata da a don Riccardo Scorsone, Giovanni Russo, Maria Vega e Vincenza Lipari che avviava, ufficialmente, con la firma di una apposita convenzione,  la cooperazione missionaria nella comunità di di Korçë in Albania. (vedi qui)

  • L’omelia dell’Arcivescovo. “La dedicazione del tempio ha sempre avuto – ha detto durante l’omelia – nella coscienza del popolo di Dio  un valore simbolico, che va al di là dell’ambito esclusivamente cultuale e abbraccia la capacità di abitare in modo nuovo la terra, nel segno dell’alleanza e dell’identità che essa contribuisce a definire. (qui il testo integrale)

Il suo significato più autentico lo possiamo ricavare dalla storia di Israele. Per ben due volte il tempio di Gerusalemme era stato “dedicato”, cioè consacrato al culto: dopo la sua edificazione e dopo il suo completamento. Ma è solo la terza dedicazione, avvenuta molto tempo dopo, che ci permette di coglierne le ricadute in tutte le dimensioni della vita personale e comunitaria, che nel culto trovano la loro sorgente e il loro compimento. Del resto – ha proseguito – è solo questa terza dedicazione che gli ebrei celebravano — e tutt’ora celebrano — con una festa solenne, chiamata anche “festa della luce”. La terza dedicazione del tempio di Gerusalemme consacrò di fatto il “secondo tempio”, quello ricostruito dopo la sua profanazione e dopo il tentativo di corrompere l’identità religiosa, culturale e sociale del popolo, già privato della sua indipendenza amministrativa e politica. Riprendersi il tempio e ri-consacrarlo significò allora per Israele, non solo poter tornare a celebrarvi il culto, ma riappropriarsi dell’identità perduta e dell’autonomia negata.

Anche la dedicazione della nostra Cattedrale, che nella festa di oggi commemoriamo, ha un significato analogo a quella del “secondo tempio” di Gerusalemme. San Gerlando la consacrò – ha proseguito – quando Agrigento, liberata in epoca normanna dalla dominazione araba, che ne aveva cancellato le antichissime tracce cristiane risalenti all’epoca romana e a quella bizantina — fu rievangelizzata e tornò a essere una Chiesa particolare affidata a un vescovo. La stessa scelta di intitolarla all’Assunta — a cui era già dedicata la prima cattedrale — e a San Giacomo — nella cui festa liturgica, il 25 luglio, del 1086 Agrigento liberata ridiventò ufficialmente cristiana — conferisce alla dedicazione un significato identitario, più ampio di quello strettamente liturgico. (leggi qui il testo integrale) E a noi, che oggi — dopo poco meno di un millennio — ne celebriamo la festa, la dedicazione della nostra Cattedrale, con questo significato, cosa dice? Cosa ci dice in questo tempo di generale scristianizzazione, che nel nostro piccolo assume i tratti di in un’esperienza di fede a volte superficiale e contraddittoria e di una vita morale a volte disordinata e disorientata?

Cosa ci dice in questo tempo di generale frammentazione, che facilmente ci porta alla rottura dell’unità e alla perdita del senso di appartenenza, tanto nella vita familiare quanto in quella ecclesiale, in quella sociale e in quella civica?

Cosa ci dice in questo tempo di generale deresponsabilizzazione, in cui ci sentiamo un po’ tutti, in qualche modo, in crisi, artefici e nelle stesse vittime di molteplici emergenze di cui quella idrica è solo l’ultima — e non certo per la prima volta — in ordine di comparsa?

Cosa dice la festa della dedicazione della Cattedrale alla Chiesa Agrigentina alle soglie dell’anno giubilare, mentre gli occhi dell’intero Paese saranno puntati sul suo capoluogo eletto a “Capitale della Cultura”?

Il Giubileo — ricordiamolo e teniamolo bene in mente, ha detto — non è soltanto il tempo delle indulgenze. È anche quello in quanto — e nella misura in cui — è il tempo dei nuovi inizi. È l’opportunità di ridare libertà alla coscienza e dignità ai rapporti, motivazioni alle responsabilità e fedeltà agli impegni.

E la Cultura (quella con la “c” maiuscola), dal canto suo, non si può ridurre alle opere che raccontano ciò che una civiltà è stata e ha fatto nel passato. La Cultura è l’anima che dà forma al presente. È la capacità di attingere al patrimonio architettonico e alle opere d’arte, alle testimonianze scritte e alle tradizioni orali, agli usi e ai costumi consolidati nel tempo, non per rimpiangerli o per convincersi di aver fatto tutto ciò che si poteva fare, ma perché dalla lezione del passato si possa imparare l’arte di vivere bene il presente. Anche in questa nostra terra, dalla quale spesso ci convinciamo che non possa venire nulla di buono, certamente segnata da equilibri precari e da inspiegabili contraddizioni, ma nello stesso tempo ricca di risorse e piena di potenziali.

A questa terra, che ancora una volta vuole ripensarsi e rimettersi in gioco, senza cedere alla tentazione di ripiegarsi su sé stessa e piangersi addosso, la festa di oggi ricorda che è possibile farlo. È possibile perché le grandi narrazioni della storia — quella del nostro popolo, come quella di Israele — ci dicono che è già avvenuto; ed è successo in situazioni molto più improbabili di quella che stiamo vivendo oggi.

E ogni volta, nonostante tutto, si può ricostruire e consacrare nuovamente: la comunità, come il tempio nel quale essa si raduna; la sua speranza, come la preghiera che nel tempio si innalza; i suoi sforzi, come il sacrificio che nel tempio si offre; la sua missione, come il mandato che nel tempio si riceve.

Ogni volta, nonostante tutto, si può ricostruire e consacrare nuovamente, ma a condizione di ritrovare dei punti fermi che caratterizzano la nostra identità cristiana: punti fermi che la Parola ascoltata — a una lettura un po’ più attenta — ci aiuta a individuare come rimedio a quei rischi di scristianizzazione, frammentazione e deresponsabilizzazione a cui accennavo prima.

Quando la fede vacilla e la morale si rilassa, sappiamo di poter contare su un fondamento solido, capace di resistere — e di farci resistere — a ogni vento contrario.

Come questa Cattedrale, al pari di ogni altra costruzione, si regge sulla pietra angolare — quella posta per prima e sulla quale tutte le altre idealmente si appoggiano — così l’edificio spirituale che questo tempio rappresenta può ritrovare la sua forza vitale ricorrendo a ciò che da sempre lo sostiene. E cos’è che lo sostiene?

Il Vangelo ci ha ricordato che questo fondamento è la professione di fede di Pietro. Conosciamo tutti la fragilità umana del primo degli apostoli, culminata nel suo rinnegamento, che ci fa guardare con più serenità i difetti che ognuno di noi si porta dietro. Sappiamo anche che nelle prime comunità cristiane, come del resto nello stesso gruppo degli apostoli, l’esperienza della fede ha dovuto fare i conti con cadute e conflitti di ogni genere, che anche tra noi non mancano. Ma la forza di quella dichiarazione — «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» — suggerita non dalla carne né dal sangue, ma dal Padre che è nei cieli, ci ricentra sull’unica cosa che può risanare le ferite e ricomporre le lacerazioni. Non si tratta di pronunciare una formula magica o di ripetere una definizione dogmatica, ma di tornare al cuore.

E al cuore si torna permettendo a quella domanda — «Ma voi, chi dite che io sia?» — di riportarci a tu per tu con Cristo: non da soli, ognuno per i fatti suoi, ma insieme e con la garanzia che Cristo ha riposto nella sua Chiesa, fatta di peccatori, ma santa per vocazione. Prima della Messa – ha detto ai fedeli presenti in Basilica – , con i presbiteri e i diaconi, ci siamo dati alcuni spunti di riflessione e abbiamo condiviso alcune istanze pastorali per il nuovo anno. Certamente cose di cui sapremo fare tesoro nelle nostre comunità, ma che avranno effetto solo se sapremo tornare a questo “a tu per tu” con Cristo nella Chiesa”. A partire da questo rapporto, mons. Damiano, ha concluso l’omelia con due consegne; una ai “fratelli nel ministero, l’altra “ai fratelli e sorelle nel battesimo”:

  • A voi, fratelli nel ministero ordinato, chiedo di tornarci in prima persona, perché non potremo mai offrire agli altri quello che non abbiamo, e non ci possiamo permettere di non offrirlo, perché per questo siamo stati costituiti. Vi chiedo di tornarci mediante un contatto vitale con l’Eucaristia che celebriamo e la Parola che annunciamo, mediante la riconciliazione sacramentale a cui dobbiamo ricorrere con assiduità e la direzione spirituale che non dobbiamo trascurare. Vi chiedo di tornarci diventando sempre più sacramento vivo di Cristo nelle nostre parrocchie, con una presenza stabile e incisiva, assicurandovi che le chiese restino aperte per buona parte della giornata e che nessuno, dentro le chiese e attorno a esse, resti escluso o si senta fuori luogo. Vi chiedo di tornarci facendo in modo che a nessuno — soprattutto ai poveri, ai malati e agli anziani — manchi la consolazione di Dio e che a tutti — soprattutto ai bambini, ai giovani e alle famiglie — sia garantita una guida sicura.

Quanto più la fede in Cristo ci renderà saldi, tanto più la sua carità ci terrà uniti. Più volte vi ho invitato a considerare l’unità, non come somma delle parti, ma come condizione perché le parti ci siano e stiano insieme. Non basta una sola pietra a fare un edificio né è sufficiente che tante pietre stiano l’una accanto all’altra come capita. È necessario che siano tagliate in modo da combaciare tra loro e che siano disposte in modo da tenersi in equilibrio. E allora l’edificio potrà vacillare, ma non potrà cadere. I nove secoli di continui interventi strutturali sulla nostra Cattedrale ci dimostrano che basta un piccolo dissesto per renderla instabile e dichiararla inagibile, ma basta anche ristabilire il gioco delle forze per mantenerla in piedi e renderla sempre più sicura e sempre più bella.

È inevitabile che avvengano divisioni, perché la diversità, che è un dato di fatto, se è considerata in sé stessa e non è integrata in una visione d’insieme, non può che provocare rivalità e contese. Quando questo accade, non vuol dire che non siamo fatti per stare insieme o che non c’è più nulla da fare, ma solo che abbiamo smarrito — o forse non abbiamo mai trovato — le ragioni e le esigenze del nostro essere una cosa sola. E allora le stesse divisioni, che spesso ci scandalizzano e ci paralizzano, possono diventare un fatto provvidenziale, perché ci costringono a riscoprire — o forse a scoprire per la prima volta — quella condizione di unità che è la carità di Cristo. Siamo pietre vive per un edificio spirituale — come ci ha ricordato Pietro nella seconda lettura — se restiamo uniti a Cristo, pietra viva. E quando questa pietra diventa «sasso d’inciampo» e «pietra di scandalo» è solo per mettere in luce la disobbedienza alla Parola, che ci allontana dalla luce e ci relega nelle tenebre.

  • A voi tutti, fratelli e sorelle nel battesimo, chiedo di camminare insieme come in una grande famiglia, nella quale si riconoscono e si integrano — senza confondersi e senza esasperarsi — i diversi ruoli. Vi chiedo di stimarvi sinceramente e di sostenervi gli uni gli altri nel nome di Cristo; e, quando dovesse servire, di compatirvi e di perdonarvi come lui fa con noi. Ma soprattutto vi raccomando di non rinchiudervi in voi stessi né di coalizzarvi in quei gruppetti pericolosissimi che spesso, anche nelle nostre parrocchie, lacerano il corpo di Cristo e spengono lo Spirito. Non dimentichiamoci di essere ciò che l’apostolo ci ha ricordato: «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato».

Il nostro convenire qui oggi, in Cattedrale nella festa della sua dedicazione, ha già in sé una forza generativa, perché ancora una volta ci fa prendere consapevolezza di tutto questo e perché ci aiuta a ricentrarci sull’unica fede che ci rende saldi e sulla stessa carità che ci tiene uniti. Ma non basta ritrovare noi stessi. Da questa identità ritrovata dovrà scaturire un nuovo senso di responsabilità verso tutti e verso tutto; dovrà scaturire, come vi dicevo all’inizio, un nuovo modo di abitare la terra. La prima lettura ci ha invitati a una circolarità tra la fede e la vita, che rischiamo di troncare quando le consideriamo come due dimensioni che non hanno niente da dirsi e niente a che vedere l’una con l’altra. Su come declinare la fede nell’osservanza del diritto e nella pratica della giustizia potremmo aprire tante piste di riflessione, destinate a moltiplicarsi per quante sono le problematiche della nostra provincia e dei nostri comuni, ma anche per quante sono le competenze che — nel pubblico come nel privato — ci interpellano tutti a un impegno più coerente, più organico e più sistematico.

Affido – ha concluso – questa declinazione a ogni singola comunità, in particolare ai consigli pastorali e alle consulte, perché sappiano essere nel territorio laboratori di discernimento e promotori di vita nuova. E a tutti rivolgo la raccomandazione a restare «fermi nell’alleanza», perché il Signore — secondo le parole di Isaia — ci conduca sul suo monte santo e ci colmi di gioia nella sua casa di preghiera”.

Carmelo Petrone