Avviata la cooperazione missionaria con l’Albania (parole e immagini)

Domenica 5 settembre 2021, nei primi vespri della Solennità della Dedicazione della Basilica Cattedrale di Agrigento e primo anniversario dell’ordinazione episcopale di mons. Alessandro Damiano, il Nunzio Apostolico in Italia, mons. Emil Paul Tscherrig, ha imposto, nomine Summi Pontificis, il pallio all’arcivescovo di Agrigento.

La Celebrazione Eucaristica ha avuto luogo nella Cattedrale alla presenza, in ossequio alle disposizioni governative, di una rappresentanza di presbiteri, diaconi, religiosi, fedeli laici e le massime autorità civili e militari del territorio. È stata una forte esperienza di Chiesa, seppur segnata dai limiti che l’emergenza sanitaria impone che in tanti, anche dall’Albania hanno potuto seguire collegati in diretta streaming con il Canale YouTube dell’Arcidiocesi di Agrigento (Guarda il video).

L’Eucaristia, la Dedicazione della Cattedrale e l’imposizione del pallio – nel loro valore rispettivamente sacramentale, liturgico e simbolico – costituiscono tre rimandi alla piena comunione che, uniti al nostro Vescovo e, per suo tramite, al Santo Padre e alla Chiesa universale da lui presieduta «nella carità», siamo chiamati a custodire e a vivere. Durante la S. Messa, inoltre, alla presenza dell’Amministratore Apostolico del Sud Albania, mons. Giovanni Peragine, l’arcivescovo  Alessandro ha conferito il mandato missionario a don Riccardo Scorsone, Giovanni Russo, Maria Vega e Vincenza Lipari avviando, ufficialmente, con la firma di una apposita convenzione la cooperazione missionaria preparata negli anni negli ultimi anni.

La Chiesa agrigentina, così, dopo l’esperienza quarantennale con la Chiesa di Iringa (parrocchia di Ismani in Tanzania) si apre generosamente alla dimensione missionaria che, insieme a quella comunionale, definisce l’identità e la vocazione proprie della Chiesa, radicata in un territorio e dilatata al mondo intero.

Saluto del Vicario Gen. don Cumbo

All’inizio della celebrazione Eucaristica ha preso la parola il Vicario Generale, don Giuseppe Cumbo, che a nome della Chiesa agrigentina ha ringraziato, nella persona del Nunzio, il Santo Padre. “La sua presenza – ha detto rivolgendosi a mons. Tscherrig – ci riempie di gioia perché ci manifesta l’attenzione del Santo Padre, il Papa Francesco, per la nostra Chiesa Agrigentina. Il suo compito infatti, come insegna il diritto, è di «rendere sempre più saldi ed efficaci i vincoli di unità che intercorrono tra la Sede Apostolica e le Chiese particolari» (can. 364). La ringraziamo per essere oggi in mezzo a noi il segno tangibile di questi vincoli e le diamo il benvenuto”. Ha poi rivolto il saluto anche agli altri vescovi presenti in Cattedrale, in particolare a mons. Carmelo Ferraro, primo Arcivescovo Metropolita dopo che il 2 dicembre dell’Anno Santo 2000, la sede vescovile di Agrigento veniva ufficialmente dichiarata da San Giovanni Paolo II, sede Arcivescovile e Metropolitana. Erano presenti inoltre, mons. Salvatore Muratore, nostro conterraneo e vescovo di Nicosia, mons. Enrico Dal Covolo, presente in questi giorni in città , mons. Francesco Lo Manto, arcivescovo di Siracusa, mons. Mario Russotto, mons. Rosario Gisana, quest’ultimi vescovi delle diocesi suffraganee di Caltanissetta e Piazza Armerina. Un pensiero carico di affetto e gratitudine è andato anche al card. Francesco Montenegro, non presente ma unito al momento di preghiera spiritualmente da Roma, dove risiede. Un saluto particolare, inoltre, anche a mons. Giovanni Peragine, giunto appositamente dall’Albania e all’intera Amministrazione Apostolica del Sud Albania.

L’Augurio all’Arcivescovo Alessandro

Non è mancato l’augurio all’arcivescovo Alessandro nel giorno anniversario della consacrazione episcopale e per l’imposizione del pallio: “Carissimo Padre Vescovo Alessandro – ha detto don Cumbo – a nome della Chiesa agrigentina le formulo i più sinceri auguri. Per farlo vorrei richiamare tre personaggi biblici: Mosè, Elia e lo sposo del Cantico dei cantici. Le auguriamo di esercitare il suo ministero episcopale a servizio della nostra Chiesa Agrigentina incarnando le caratteristiche di Mosè: sia per noi voce profetica, guida nel cammino e amico di Dio. Come Elia, ci stimoli con la sua parola a vincere qualsiasi forma di resistenza alla grazia e a fidarci sempre più di Dio. Come lo sposo del Cantico, continui a scoprire la bellezza di questa sua sposa, perché anche lei possa cantare: «Quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella!» (Ct 4,1). La Vergine Santissima e i santi e i beati della Chiesa Agrigentina intercedano per tutti noi e in particolare per lei, amatissimo Padre. Ci contagino la gioia di una santità sempre viva e sempre giovane e ci siano compagni di strada nella sequela del Signore e nel servizio alla Chiesa e al mondo”.

 

L’imposizione del Pallio e le parole del Nunzio mons. Emil Paul Tscherrig

Il Nunzio impone il pallio a mons. Damiano

Prima dell’’imposizione del pallio, preceduta dalla professione di fede dell’arcivescovo Alessandro davanti al Nunzio e a tutta la comunità, ha preso la parola mons. Emil Paul Tscherrig. “Il pallo – ha detto – preso dalla tomba del Beato Apostolo Pietro e benedetto dal Santo Padre Francesco lo scorso 29 giugno nella Basilica Vaticana è antichissima insegna episcopale confezionata con lana di agnelli, secondo la tradizione della Chiesa indica la sollecitudine del nostro Salvatore che incontrandoci come la pecora perduta se la carica sulle spalle, simbolo del vescovo Buon Pastore che con la sua lana d’agnello intende rappresentare la pecorella perduta o anche quella malata e quella debole che il pastore mette sulle sue spalle”.

Dal 2015, per volontà del Santo Padre, non è più imposto ai nuovi arcivescovi metropoliti dal Papa a Roma per la Solennità dei Santi Pietro e Paolo, ma da un suo rappresentante nelle Chiese locali dei rispettivi arcivescovi. Il significato di questa modifica è quello di mettere maggiormente in evidenza la relazione degli arcivescovi metropoliti con la loro Chiesa locale, quindi dare anche la possibilità a più fedeli di essere presenti a questo rito e anche particolarmente ai vescovi delle diocesi suffraganee (per la nostra metropolia Piazza Armerina, Caltanissetta), che in questo modo potranno partecipare al momento della imposizione.

Nella sua forma, il pallio è collare di stoffa, tessuta in lana bianca, incurvata al centro posta sulle spalle sopra la casula e con due lembi neri pendenti davanti e dietro, così che – vista sia davanti che dietro – il paramento ricordi la lettera “Y”. È decorato con sei croci nere di seta, una su ogni coda e quattro sull’incurvatura, ed è guarnito, davanti e dietro, con tre spille d’oro.

L’Omelia di mons. Damiano

Dopo l’imposizione del pallio mons. Damiano ha assunto la presidenza dell’Eucarestia. Nell’omelia ha ricordato come “questa celebrazione mentre scandisce un’altra tappa del nostro cammino, ce ne fa riscoprire il senso, ne ravviva le motivazioni e lo proietta sempre più in avanti”.

Ha poi evidenziato come “ I tre segni attorno a cui essa ruota — la dedicazione della cattedrale, l’imposizione del pallio e l’avvio della cooperazione missionaria — tracciano,infatti, tre coordinate, che ci segnalano – ha detto – una posizione e ci indicano una direzione, suggerendoci tre movimenti per dare nuova vitalità e nuovo slancio al nostro essere Chiesa.

  • Il primo segno – la dedicazione della cattedrale – fissa la prima coordinata dentro i confini del territorio agrigentino, dove vive una porzione del popolo di Dio, che è la nostra Chiesa particolare. Nella cattedra del vescovo – da cui questo tempio prende il nome ma soprattutto il valore simbolico – essa ha il suo centro visibile di unità e la ragione stessa del suo esserci. Dove infatti c’è un successore degli Apostoli, attorno a lui c’è la Chiesa: convocata sul fondamento di Cristo, ma con i lineamenti concreti di comunità che condividono lo stesso ritaglio di terra e lo stesso tratto di storia”. Commentando la litugia della Parola ha detto: “La seconda lettura ci invita a scorgere nell’edificio materiale, fatto di pietre inanimate, l’espressione della Chiesa quale edificio spirituale, fatto di pietre viventi. Ciò vuol dire – ha proseguito mons. Damiano – che la Chiesa è viva se fa sua la vita di tutto il territorio in cui è impiantata e di tutte le persone che vi abitano, senza lasciare fuori dai suoi interessi niente e nessuno. Se così non fosse – ha ammonito – sarebbe come se all’edificio mancassero alcune pietre; e noi sappiamo – anche dalla storia della nostra cattedrale – che, se un elemento viene meno o diventa precario, l’intera costruzione perde la sua stabilità e diventa inagibile” L’ accostamento tra l’edificio materiale e quello spirituale è stata occasione propizia per ricordare ai presenti che “tante pietre messe insieme non bastano a formare una costruzione: è necessario che esse siano disposte in un certo modo e che siano tenute saldamente insieme. E così è per la Chiesa. Essa non può perdere di vista le differenze con cui la fantasia dello Spirito la arricchisce, ma deve comporle in una unità armonica che ne sappia valorizzare la complementarità. E deve farlo ancorandole a qualcosa che possa resistere alle incomprensioni e alle difficoltà della vita comunitaria, che non mancano mai… La prima lettera di Pietro riconosce il fondamento di questo vincolo in Cristo, che pertanto è come la «pietra d’angolo» su cui poggia l’intero edificio. E il vescovo è il segno della sua presenza, al servizio della molteplicità e dell’unità della Chiesa locale affidata alle sue cure pastorali…

Questo insegnamento sulla comunità cristiana – ha proseguito mons. Damiano – trova una delle sue prefigurazioni nella ristrutturazione e nella riorganizzazione di Gerusalemme, al tempo del ritorno dall’esilio. Sotto l’impulso e la guida del sacerdote Esdra e del governatore Neemia, Israele riconosce che il primo passo da compiere è recuperare la sua coscienza di popolo dell’alleanza. E così, prima di ricostruire la città, si impegna innanzitutto nella riedificazione del tempio e, subito dopo la sua dedicazione, avvia attorno a esso una vera e propria riforma, che parte dalla sfera religiosa e abbraccia tutte le altre dimensioni dell’esistenza. Nella prima lettura – ha continuato – troviamo il racconto di una grande celebrazione che sembra inaugurare questo processo. Tutto gravita attorno al libro della legge, nel quale Israele aveva fissato la sua comprensione dell’azione di Dio nella storia. In essa il popolo disperso ritrova il suo fondamento e, su questo fondamento ritrovato, si ricompone. Riconosce di essere finito in esilio proprio per averlo smarrito. E riconosce anche che solo ri-centrandosi su di esso si potrà compiere il vero ritorno: non un ritorno geografico, per riconquistare la terra da cui era stato deportato, ma un ritorno identitario, per riappropriarsi della coscienza che aveva smarrito. Ma, sul fondamento della parola di Dio, Israele non ritrova soltanto la coscienza dei suoi singoli membri. Il versetto che precede il racconto riferisce che «tutto il popolo si radunò come un solo uomo», istituendo così un rapporto strettissimo tra la parola, gli individui che la ascoltano e l’unità che tra loro si stabilisce, in una sorta di personalità collettiva. Tutto il popolo come un solo uomo: proprio come nell’immagine paolina dell’unico corpo, costituito da tante membra, complementare a quella petrina dell’unico tempio, edificato con tante pietre. Il segno della dedicazione della cattedrale raccoglie tutti questi significati e, collocandoci nella prima coordinata della nostra Chiesa locale, ci suggerisce un primo movimento che definirei di “concentrazione”, in quanto ci spinge a ritrovare quel centro unificante nel quale siamo una cosa sola, pur nella varietà dei carismi e dei ministeri, delle condizioni e degli stati di vita. Ma ritrovare il centro all’interno dei soli confini della diocesi non basta. Le singole Chiese, del resto, non sono tanti piccoli mondi, separati dai loro confini, ma parti di un unico tutto; e in questo senso le denominiamo “particolari”, ponendole in relazione con quella che chiamiamo “universale”, in quanto le raccoglie in una unità più grande e più compiuta.

  • Questo ci ricorda il secondo segno della nostra celebrazione – l’imposizione del pallio – fissando la seconda coordinata nella Chiesa di Roma, che come diceva sant’Ignazio di Antiochia «presiede nella carità tutte le Chiese». Il pallio esprime infatti un particolare legame tra la Chiesa universale e quelle particolari, raggruppate storicamente in piccole circoscrizioni – le province ecclesiastiche – per renderne più agevole il governo. Mentre inizialmente era indossato unicamente dal vescovo di Roma, per indicare il buon pastore che si carica sulle spalle la pecora smarrita e dà la vita per l’intero gregge, a partire dal VI secolo il pallio fu concesso dal papa anche ai metropoliti, ossia a quei vescovi a cui era affidata una speciale giurisdizione, esercita nella propria provincia in comunione con la Chiesa di Roma. Oggi le funzioni del vescovo metropolita – ha detto – sono molto ridotte; anzi, sono ormai più simboliche che effettive. Ma questo antico segno continua a mantenere il suo significato originario in ordine alla comunione delle Chiese, riunite tra loro per omogeneità storiche e territoriali e legate inscindibilmente alla Chiesa madre di Roma e al suo vescovo. Se è vero, dunque, che dove c’è un successore degli Apostoli c’è una porzione di Chiesa, è altrettanto vero che dove c’è il successore di Pietro c’è la Chiesa nella sua totalità, sparsa nel mondo, ma sempre «una, santa, cattolica e apostolica». Il Signore, infatti, ha edificato la sua Chiesa sulla roccia di Pietro, come ci ha ricordato il Vangelo, affidandogli – attraverso la consegna simbolica delle chiavi del regno – la sua stessa autorità di guidare e confermare il popolo della nuova alleanza. La seconda coordinata, che ci fa riconoscere il legame costitutivo di tutte le Chiese con quella di Roma e di tutti i vescovi con il suo, ci indica dunque un secondo movimento, che possiamo definire di “radicamento”. Come una pianta, infatti, affonda le sue radici nel terreno e poi, a partire dal tronco, estende i suoi rami e porta i suoi frutti, così tutte le Chiese locali trovano nella Chiesa di Roma il fondamento della comunione piena, dalla quale ha origine e nella quale converge la loro varietà. Da questa appartenenza allargata deriva pure la sollecitudine che ogni Chiesa deve avere per tutte le altre, cosicché vale anche per i rapporti tra le Chiese ciò che sperimentiamo all’interno delle nostre comunità e che san Paolo, ricorrendo alla similitudine del corpo, dice di ogni suo membro nei confronti degli altri: «se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui» (1Cor 12,26).
  • Nella sollecitudine verso le Chiese sorelle si colloca infine il terzo segno di oggi – l’avvio della cooperazione missionaria – che fissa nel Sud Albania una terza coordinata e allarga la duplice prospettiva della “concentrazione” e del “radicamento” in un terzo movimento, che mi piace pensare come un movimento di “espansione”.Ovviamente – ha precisato – non si tratta di quell’espansione che in passato ha animato le crociate e spinto i colonialismi di ogni genere. La quarantennale esperienza nella diocesi di Iringa e nella parrocchia di Ismani, che si è conclusa quando il discernimento comunitario ci ha convinti che quella porzione di Chiesa era in grado di camminare da sola, ci ha insegnato che la missione non consiste nel sostituirsi all’apostolato locale, ma nel sostenerlo fin quando non sia capace di sostenersi da sé. Ci ha aiutato a capire, inoltre, che una Chiesa missionaria non si può limitare a dare, pensando di avere tutto ciò che le basta e illudendosi di non avere nulla da ricevere, perché ci ha fatto gustare la bellezza e la ricchezza dello scambio, sia quello culturale, sia soprattutto quello della testimonianza e del servizio.

Forti di questa consapevolezza – ha detto – ci volgiamo adesso all’Amministrazione Apostolica del Sud Albania, per cominciare una nuova esperienza di cooperazione, cioè di movimenti in entrata e in uscita. Questi movimenti sono già stati attivati negli anni scorsi attraverso diverse fasi di reciproca conoscenza e di progressivo avvicinamento, di cui abbiamo cominciato a raccogliere i frutti da entrambe le parti. A questa cooperazione – ha detto – oggi vogliamo dare stabilità e sistematicità, attraverso la firma congiunta della convenzione tra le nostre Chiese e attraverso l’invio in missione di don Riccardo, Maria, Vicky e Giovanni. In loro e con loro, è tutta la Chiesa Agrigentina a riscoprirsi missionaria e ad allargare i propri orizzonti, non solo quando si proietta oltre i suoi confini, ma anche quando vive i suoi rapporti al suo interno.

Con queste tre coordinate, ha concluso, – che concentrano il nostro sguardo su Agrigento, lo radicano a Roma e lo proiettano in Albaniariprendiamo, dunque, il nostro cammino. Riprendiamolo nello stile della sinodalità, che non è il metodo per stabilire insieme cosa fare e come farlo, ma la consapevolezza di essere legati da una comune appartenenza e la capacità di farci fratelli e compagni di viaggio di tutti, ricomponendo i nostri rapporti spesso frammentati e a volte anche spersonalizzati. L’intercessione della Beata Vergine Maria Assunta e di san Giacomo, a cui questa cattedrale è dedicata, la protezione di San Gerlando, che ha rifondato la nostra Chiesa e ha voluto questo tempio, e la testimonianza dei santi e dei beati agrigentini di ieri e di oggi ci aiutino a seguire il Signore là dove lui, passo dopo passo, ci conduce”.

  • Il mandato missionario

albaniaDopo la comunione il direttore del Centro per la Missione, don Aldo Sciabbarrasi, ha chiamato per nome i missionari sui quali, dopo avere accolto l’«Eccomi» personale”, l’Arcivescovo, ha invocato la benedizione ed infine ha loro consegnato il crocifisso dicendo ad ognuno: “ricevi questo segno della carità di Cristo e della nostra fede. Predica il Cristo crocifisso, potenza di Dio e sapienza di Dio”. Inizia così la cooperazione missionaria della Chiesa agrigentina con l’Albania.

I quattro missionari che hanno ricevuto il mandato. Da sinistra: Vicky Lipari, Giovanni Russo, Maria Vega e don Riccardo Scorsone