Ordinazione presbiterale, Mons. Damiano : «Siate preti degli ultimi, del Vangelo e creativi»

Martedì 29 giugno 2021, Solennità dei Santi Pietro e Paolo, la Comunità ecclesiale agrigentina in tutte le sue componenti, anche se per rappresentanze in ottemperanza ai provvedimenti governativi per il contenimenti della Pandemia, si è riunita attorno all’Arcivescovo Alessandro, per invocare il dono dello Spirito Santo per la consacrazione presbiterale dei diaconi, don Ignazio Bonsignore, della Comunità ecclesiale di Agrigento, don Antonio Giuseppe Gucciardo, della Comunità ecclesiale di Siculiana, don Gioacchino Andrea La Rocca, della Comunità ecclesiale di Campobello di Licata, don Giuseppe Licata, della Comunità ecclesiale di Aragona, don Calogero Antonio Sallì, della Comunità ecclesiale di Porto Empedocle e don Gioacchino Atanasio Vassallo, della Comunità ecclesiale di Palma di Montechiaro.

Al Rito dell’ordinazione, animato dalla colale diocesana, hanno preso parte i presbiteri e i diaconi della Chiesa agrigentina, presenti i familiari e le comunità di origine degli ordinandi, con alcuni dei primi cittadini, ma anche quelle dove i novelli presbiteri hanno svolto il ministero diaconale e tanti amici e parenti accorsi numerosi per questo evento di grazia.

Suggestivo e ricco di di segni il rito di ordinazione: la chiamata per nome dei candidati, il dialogo tra il vescovo ed il rettore del seminario, don Baldo Reina che ha chiesto, a nome della Chiesa agrigentina, che i diaconi siano ordinati presbiteri. L’Arcivescovo, dopo essersi sincerato che ne siano degni, li ha eletti all’ordine del presbiterato. È seguita poi l’interrogazione e la promessa di obbedienza tra le mani del Vescovo, ed il suggestivo momento delle litanie dei santi (per la prima volta, dopo la beatificazione, è stata invocata anche  l’intercessione del Beato Rosario Angelo Livatino),  con gli ordinandi prostrati a terra in segno di consegna della propria vita a Dio, l’invocazione dello Spirito, l’imposizione delle mani sul capo e la solenne preghiera di consacrazione, quindi l’unzione delle mani col sacro crisma, la vestizione dei paramenti sacerdotali (la stola e la casula) e la consegna ai neo presbiteri della patena con il pane e il calice con il vino accompagnata dall’invito a trasformare in vita la celebrazione eucaristica: “Ricevi – ha detto a ciascuno l’Arcivescovo – le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico. Renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai. Conforma la tua vita al mistero della Croce di Cristo Signore”. Il rito d’ordinazione si è concluso con l’abbraccio dei neo presbiteri con il vescovo e con tutto il presbiterio presente a significare l’entrata a far parte di esso e la loro accoglienza in seno ad esso.

L’arcivescovo all’inizio dell’omelia ha ricordato come: “nella preghiera di ordinazione chiederò – ha detto –  al Signore che venga in aiuto alla nostra debolezza e ci faccia dono di collaboratori per l’esercizio del sacerdozio apostolico. Lo pregherò perché dia a questi suoi figli la dignità del presbiterato e perché essi, per la rinnovata effusione dello Spirito, con il loro esempio guidino tutti a un’integra condotta di vita. La stessa preghiera – ha proseguito –  ricorderà a loro e a tutti noi gli impegni che si assumono a favore dell’intero popolo sacerdotale, dal quale essi sono scelti e per il quale sono costituiti presbiteri” E facendo riferimento alla Solennità liturgica dei Santi Apostoli Pietro e Paolo ha detto come questa “ci dà una chiave di lettura per cogliere il senso di questi impegni… Pietro e Paolo ci suggeriscono come accogliere e integrare la diversità, mettendola al servizio della Chiesa e del Regno. Ci insegnano che la diversità accolta e integrata, oltre a essere espressione della fantasia dello Spirito, è l’opportunità di poter raggiungere tutti — e non soltanto i credenti! — a qualsiasi universo culturale e sociale appartengano, comprendendone e parlandone i linguaggi propri, per coglierne le attese e insaporirle di Vangelo: i nuovi “vicini”, come i Giudei ai quali si è rivolto Pietro, e i nuovi “lontani”, come i Gentili ai quali è stato inviato Paolo. Solo in questa apertura – ha proseguito –  senza condizioni, pregiudizi e confini, si fonda e continuamente si rigenera l’esperienza della Chiesa…”. Facendo poi riferimento alla pagina del Vangelo della liturgia che ha presentato il breve e intenso dialogo tra Gesù e i discepoli, “nel quale – ha detto – ognuno di noi, e oggi soprattutto ognuno di voi ordinandi, può intravedere la declinazione concreta di questa apertura: … domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Pensando a voi – ha proseguito rivolto agli ordinandi – , che tra poco sarete ordinati presbiteri, e così a tutti noi, tratti dal popolo sacerdotale per servirlo nelle cose che riguardano Dio (cf. Eh 5,1), ho pensato che in quel dialogo c’è un tratto imprescindibile del nostro servizio: intercettare quel che dice la gente sul “Figlio dell’uomo” e decifrare la domanda di fede che oggi si manifesta in modi inediti, per accompagnarla e orientarla alla risposta di Pietro. A condizione che noi quella risposta l’abbiamo data. Scontato non è. C’è tanta retorica – ha proseguito mons. Damiano –  sulla figura del prete”. Ha fatto, poi sue , rivolgendole ai 6 diaconi,  le parole di Papa Francesco che ricorda: «Il prete è un uomo che, alla luce del Vangelo, diffonde il gusto di Dio intorno a sé e trasmette speranza ai cuori inquieti: così dev’essere. “Pastori con l’odore delle pecore”, persone capaci di vivere, di ridere e di piangere con la vostra gente, in una parola di comunicare con essa. […]

Non si può riflettere sul sacerdote fuori dal santo popolo di Dio. Il sacerdozio ministeriale è conseguenza del sacerdozio battesimale del santo popolo fedele di Dio. Questo, non va dimenticato. Se voi pensate un sacerdozio isolato dal popolo di Dio, quello non è sacerdozio cattolico, no; e neppure cristiano».E chiamando per nome gli eletti ha proseguito: “Atanasio, Calogero, Gioacchino, Ignazio, Pippo, Tony, attenti! Come se direttamente Francesco — e non Alessandro — parlasse a voi. «Spogliatevi di voi stessi, delle vostre idee precostituite, dei vostri sogni di grandezza, della vostra auto-affermazione, per mettere Dio e le persone al centro delle vostre preoccupazioni quotidiane. Per mettere il santo popolo fedele di Dio al centro bisogna essere pastori».

Che non vi capiti di rispondere, a chi vi cerca perché preti: «Ho la mia vita». No! L’hai data, qui, oggi. «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (Mc 8,34s). Non è parola di uomini, ma Parola di Dio.

«E non lasciamo da parte le fragilità — ci dice ancora il Papa —: sono un luogo teologico. La mia fragilità, quella di ognuno di noi è luogo teologico di incontro con il Signore. I preti “superman” finiscono male, tutti. Il prete fragile, che conosce le sue debolezze e ne parla con il Signore, questo andrà bene».

Successivamente facendo riferimento all’incontro del 26 giugno u.s. con Papa Francesco in occasione del 50 di Caritas italiana, durante il quale – ha confidato ai presenti,  ho detto di voi e di questa celebrazione — ha ripreso il messaggio  e le tre vie indicate ai membri della Caritas consegnandole agli ordinandi: “Le consegno a voi – ha detto -, per il vostro ministero di presbiteri, e a tutti noi, ciascuno con il suo ministero specifico, all’interno dell’unico popolo di Dio che insieme siamo chiamati a edificare.

La prima è la via degli ultimi. «È da loro che si parte, dai più fragili e indifesi. Da loro. Se non si parte da loro, non si capisce nulla». Nel vostro servizio pastorale, nelle parrocchie o negli uffici diocesani, guardate sempre “dal punto di vista dei poveri”. Vedrete una storia diversa, quella vera. Giudicherete meno e amerete di più, con quell’amore di eccedenza che Gesù chiede a Pietro: «Mi ami tu, più di costoro?». Allora scoprirete che «la carità è la misericordia che va in cerca dei più deboli, che si spinge fino alle frontiere più difficili per liberare le persone dalle schiavitù che le opprimono e renderle protagoniste della propria vita”. Ha chiesto poi loro di guardare alla realtà con gli occhi degli ultimi “perché  guardando gli occhi dei poveri guardiamo la realtà in un modo differente da quello che viene nella nostra mentalità. La storia – proseguito l’Arcivescovo Alessandro – non si guarda dalla prospettiva dei vincenti, che la fanno apparire bella e perfetta, ma dalla prospettiva dei poveri, perché è la prospettiva di Gesù. Sono i poveri che mettono il dito nella piaga delle nostre contraddizioni e inquietano la nostra coscienza in modo salutare, invitandoci al cambiamento. E quando il nostro cuore, la nostra coscienza, guardando il povero, i poveri, non si inquieta, fermatevi…, dovremmo fermarci: qualcosa non funziona»”.

La seconda via irrinunciabile è la via del Vangelo. «Mi riferisco allo stile da avere, che è uno solo, quello appunto del Vangelo. È lo stile dell’amore umile, concreto ma non appariscente, che si propone ma non si impone. È lo stile dell’amore gratuito, che non cerca ricompense. È lo stile della disponibilità e del servizio, a imitazione di Gesù che si è fatto nostro servo. È lo stile descritto da San Paolo, quando dice che la carità “tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Cor 13,7). Mi colpisce la parola tutto. Tutto. È detta a noi, a cui piace fare delle distinzioni. Tutto. La carità è inclusiva, non si occupa solo dell’aspetto materiale e nemmeno solo di quello spirituale. La salvezza di Gesù abbraccia l’uomo intero. Abbiamo bisogno di una carità dedicata allo sviluppo integrale della persona: una carità spirituale, materiale, intellettuale». 

“Ricordiamo che lo stile di Dio – ha tenuto a precisare –  è lo stile della prossimità, della compassione e della tenerezza. Questo è lo stile di Dio”. Ed in fine la

terza via, quella della creatività. “Non del ‘si è fatto sempre così’ che potrete sentirvi dire – ha proseguito – ora da un pur bravo prete ora da una catechista o da un sacrestano zelante. Nell’azione pastorale, alla luce del Vangelo e dell’esperienza umana – ha detto agli ordinandi – , siate creativi”. Ricordando anche che  “lo Spirito Santo sarà sempre più creativo di voi”.  

Al termine della Celebrazione Eucaristica, prima del concedo e prima di dare la parola a don Baldo Reina, rettore del Seminario, mons. Alessandro ha ricordato i tanti presbiteri che il 29 giugno, una volta data prescelta per le ordinazioni, hanno ricordato l’anniversario di ordinazione presbiterale:  17 anni don Giuseppe Agrò, don Maurizio Di Franco, don Giuseppe Livatino e don Marco Vella; 29 anni don giuseppe Gagliano, don Antonino Giarraputo e don Luigi Lo Mascolo; i 30 anni di don Lillo Argento, don Angelo Gambino, don Giovanni Scordino; 31 anni don Vincenzo Cuffaro e don Vincenzo Lombino; i 46 anni di padre Tutino del TOR; padre Ernesto Firrera (Francescano) che ne ha compiuto 53; ma ancora i 58 anni di don Calogero Montana, don Giovanni Di Liberto, don girolamo Capobianco e don Diego Acquisto; ed ancora i 66 anni di ordinazione di don Giuseppe Pellitteri ed i 69 anni di don Antonino Amodeo ed infine i 74 anni di don Baldassere Celestri e don Domenico Di Naro. “È una catena – ha detto – che tra grazia e peccato, porta avanti questo ministero inaugurato tanti anni fa. 

Don Baldo Reina, in ultimo, ha espresso un grazie corale all’Arcivescovo e alle tante persone di cui il Signore si è servito per giungere fino a qui con un augurio finale: “Da qualche settimana, a motivo di quanto il Santo Padre ha indicato alla chiesa italiana e non solo, si parla di sinodo e di stile sinodale. C’è subito un significato – ha detto don Baldo – e un’immagine che affiorano ed è quella del camminare insieme. Quando si cammina in gruppo, oltre alla guida che orienta e a quelli cha hanno un po più di esperienza è bene che vi siano anche persone più fresche. Non sono i migliori del gruppo ma – probabilmente – quelli che hanno più entusiasmo. Hanno anch’essi bisogno dei più anziani e di tutta la comunità ma a loro è chiesto di condividere quella gioia che è tipica di chi abbraccia un nuovo inizio. Alla poca esperienza suppliscono con un grande slancio, utile in particolare per chi si sente fiaccato dalla stanchezza o da qualche fallimento. È da loro che ci si aspetta quell’incoraggiamento che tanto somiglia all’invito insistente di Dio: ‘non temere! Forza! Riprendi il cammino ’. Nella luce dei loro occhi e nella purezza del loro sorriso si può già intravedere qualcosa del punto di arrivo e questo stimola chi è rimasto indietro o chi pensa di non farcela. Sanno cosa vuol dire gettare il cuore oltre l’ostacolo perché riconoscono che ciò c’è oltre è sempre più grande di ciò che ci si lascia alle spalle. Ecco: questo è il mio e il nostro augurio: che voi – carissimi Ignazio, Gioacchino, Tony, Pippo, Calogero e Gioacchino Atanasio – nel camminare insieme a noi sappiate essere segno visibile e credibile della gioia di Cristo. Aiutateci a costruire legami di Vangelo che rendono il cammino non meno facile ma più affascinante, non meno faticoso ma più fecondo. Che la Mamma celeste vi accompagni tutti i giorni della vostra vita e vi renda sacerdoti santi e belli. Vi vogliamo bene”. Auguri, di un fecondo e ricco ministero, cari amici e fratelli presbiteri anche dalla grande famiglia del settimanale diocesano con voi siamo l’unica Chiesa del Signore, la “beddra Matri” vi sostenga e accompagni  nel cammino per dire ogni giorno il vostro “eccomi” al Padre, nella Chiesa a servizio dei fratelli che incontrerete lungo la strada.

Carmelo Petrone