Si è tenuta domenica 21 settembre 2025, la commemorazione del giudice beato, Rosario Angelo Livatino nel 35º anniversario dalla barbara uccisione nel 1990. Tre i momenti che hanno scandito la giornata: alle ore 10.30, nella chiesa San Domenico di Canicattì, parrocchia che il Giudice frequentava, é stata celebrata la Messa, alla presenza delle massime autorità civili, militari del territorio e il popolo Fedele, che in questa occasione è ritornato a celebrare l’Eucarestia nella chiesa San Domenico, dopo mesi di chiusura a causa di lavori di restauro.
A presiedere la Messa, il parroco don Salvatore Casà; per lui è stata l’ultima Celebrazione nella Chiesa San Domenico da parroco, quasi un addio nel segno di Rosario Livatino. Domenica prossima, infatti, don Salvatore saluterà, dopo 12 anni di servizio, la comunita San Diego-San Domenico perché l’Arcivescovo gli ha affidato un nuovo incarico pastorale nella parrocchia Cuore Immacolato di Maria al Villaggio Mosè di Agrigento.

A seguire la deposizione delle corone di alloro da parte delle autorità civili, militari e della Magistratura, alla Stele che ricorda il suo assassinio sulla ex SS640 in contrada Gasena, sulla terra che ha raccolto il sangue del beato Rosario nel “Paco Livatino”. Il terzo appuntamento della giornata è stato il Giubileo degli Operatori della Giustizia alle ore 19:00 nella Chiesa Santa Chiara.
La commemorazione in contrada Gasena, luogo del martirio
In contrada Gasena, al termine della commemorazione e la deposizione delle corone di alloro da parte delle autorità civili, militari, nel Paco Livatino, curato dai soci Co.N.Al.Pa della Sezione agrigentina, è stata svelata l’opera donata dal maestro Cosimo Allera di Gioia Tauro. Tante le autorità civili e militari presenti oltre ai ragazzi dell’Orchestra Rosario Livatino dell’IC Filippone di San Giovanni Gemini e di una delegazione di Gioia Tauro. Inoltre erano presenti tanti amministratori dei Comuni di San Giovanni Gemini, Cammarata, Castrofilippo, Favara,Agrigento, Ravanusa, Canicattì, Rosolini ed altri ancora.
Il Giubileo degli Operatori della Giustizia (l’omelia dell’Arcivescovo)
Il 19 settembre, dopo la rimozione della lastra che copre le spoglie del Beato Rosario Angelo Livatino nella cappella della sepoltura privilegiata per la esposizione straordinaria fino a giorno 28 (vedi qui) , il 21 settembre, nella Chiesa Santa Chiara, l’Arcivescovo Alessandro ha presieduto l’Eucarestia per il Giubileo degli Operatori della Giustizia.

“Il Giubileo, che in questo anno santo stiamo celebrando – ha detto mons. Damiano all’inizio dell’intervento omiletico – è un’occasione straordinaria concessa alla Chiesa — e, tramite la Chiesa, offerta a tutti gli uomini e le donne di buona volontà — per ristabilire la giustizia mediante un atto di misericordia. Non è una semplice concessione di perdono, ma una pratica di clemenza per ricostruire la fraternità perduta e un esercizio di benevolenza per mantenere l’armonia ritrovata. Su questo sfondo, ha detto, si inserisce — a pieno titolo e con un valore tutto speciale — il Giubileo degli operatori della giustizia. Tutti, in forza del battesimo, siamo chiamati a essere “operatori di giustizia”, orientando le nostre scelte e le nostre azioni quotidiane nella direzione che il Giubileo ci sta indicando. Quanti tra noi, che del servizio alla giustizia fanno il senso e lo scopo della propria professione e della propria vita, hanno inoltre anche il delicatissimo compito di promuovere e tutelare il comune impegno nell’edificazione di un mondo più giusto e fraterno. La commemorazione del martirio di Rosario Angelo Livatino, avvenuto 35 anni fa come oggi, conferisce poi alla celebrazione odierna un ulteriore stimolo a incanalare i nostri sforzi nei solchi della comune chiamata alla santità, che è di tutti e per tutti… In questa cornice celebrativa, la Parola che abbiamo ascoltato – ha proseguito – ci aiuta a cogliere il rapporto intimo che collega la legge alla giustizia, la giustizia alla misericordia e la misericordia alla responsabilità; e, sulla base di questo triplice rapporto, ci sollecita ad attivare e accompagnare processi virtuosi, capaci di smantellare ogni mentalità antiumana e antievangelica e di risanare la coscienza morale e gli ordinamenti sociali con la luce della fede, l’audacia della speranza e la forza della carità.
Il primo rapporto è quello tra la legge e la giustizia. Nelle sue molteplici espressioni, la legge non è mai un assoluto da idolatrare né una sovrastruttura da demonizzare. È fatta per l’uomo, come ci insegna Gesù, mettendoci in guardia dal rischio di pensare che, al contrario, sia l’uomo a essere fatto per essa; e all’uomo è data perché viva felice e a lungo nella terra che il Signore gli dona in possesso, come Mosè chiarisce al popolo di Israele mentre gliela consegna.
La legge, dunque, è sempre in funzione della giustizia, nel senso che serve a mantenere ogni cosa al suo posto, perché tutto sia in ordine e perché in quest’ordine tutti abbiano modo di vivere dignitosamente, in pace e in pienezza. Del resto, il concetto di ordine, cioè di disposizione adeguata delle cose e di equilibrio armonico delle forze, spiega il significato originario della legge. Le leggi della fisica — per intenderci — non comandano ai corpi di muoversi in un certo modo, ma descrivono il modo in cui i corpi, a determinate condizioni, si muovono, permettendo a chi le studia di prevedere quei movimenti, di accompagnarli e, quando serve, di correggerli. E così è per tutte le leggi delle altre scienze. Anche le leggi dei nostri ordinamenti giuridici dovremmo considerare in questa accezione originaria, riscoprendone il valore educativo e la funzione ordinatrice. Ma quando l’ordine diventa sinonimo di comando e il comando trae la sua forza dal potere, questo significato si perde e la legge diventa, per alcuni, strumento di asservimento e pretesto di sfruttamento, per altri, carico inconcepibile e peso insostenibile.
Il profeta Amos, nella prima lettura, individua la causa dei gravi disordini sociali del suo tempo proprio nell’alterazione del rapporto tra la legge e la giustizia. Gli oppressori, abusando del loro potere e senza farsi alcuno scrupolo neppure riguardo alle prescrizioni religiose, sottraggono la forza della legge all’istanza della giustizia, per piegarla ai propri interessi, a danno dei più deboli. E a pagare sono sempre loro, quelli che non possono, non sanno o hanno pure perso la voglia difendersi, perché privati della dignità ancor prima dei diritti, ridotti a merce di scambio e trattati come oggetto di profitto. E quell’ordine, che gli uni dovevano assicurare e che agli altri doveva essere garantito? Perso. Perso per gli oppressi, a cui è stato negato, e perso per gli oppressori, che vi hanno rinunciato. Ma quando si perde l’ordine, che — come dicevamo — è la condizione stessa della vita, non ci sono vinti e vincitori, perché si esce tutti sconfitti.
E qui entra in gioco il secondo rapporto, quello tra la giustizia e la misericordia. La misericordia è la cifra del “di più” rispetto alla giustizia, perché converte la logica del dovere, in cui si dà per ricevere qualcosa in cambio, nella logica della gratuità, in cui si dà solo per il piacere di dare. Sono le «mani pure, senza collera e senza contese» che l’apostolo Paolo, nella seconda lettura, auspica che si innalzino al cielo per implorare il desiderio che tutti — quelli che, in ogni guerra, vincendo perdono e perdendo straperdono — alla fine si ritrovano a condividere: «una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio», per dirla ancora con le parole della Scrittura. È un altro modo, certamente più immediato e concreto, per definire quell’ordine in cui consiste la legge in funzione della giustizia. E, per ritrovarlo, noi conosciamo la “via”, che poi è anche la “verità” e ultimamente è la stessa “vita”.
Paolo ce lo indica come «il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti». Questo riscatto non è semplicemente il prezzo di un debito, pagato da uno solo per tutti, una volta sola, sulla croce. Questo riscatto è la promessa che ce la possiamo ancora fare, se facciamo di ogni croce un’opportunità: se, cioè, in ogni fallimento ci impegniamo a rimediare, se da ogni sbaglio ci lasciamo correggere, se trasformiamo ogni sconfitta in una nuova scommessa.
Operare la giustizia nella prospettiva della misericordia da “credenti credibili”, sulle orme del beato Rosario, vuol dire allora ridare la dignità dei figli di Dio e la qualifica dei fratelli in Cristo tanto agli oppressi quanto agli oppressori, in un ordine ricomposto che garantisca agli uni il risarcimento dei danni subiti, agli altri la redenzione dei mali commessi e a entrambi la possibilità di ricominciare.
Ma il più delle volte – ha detto mons. Damiano – , per potersi ritrovare, bisogna perdersi: ci piaccia o no, è la legge della vita, che solo la misericordia può davvero riscattare. E il più delle volte, per potersi perdere, bisogna morire: di un martirio cruento, com’è stato quello di Rosario, a soli 37 anni, 35 anni fa, perché il sangue versato, oggi come sempre nella storia della Chiesa, continui a diventare seme di nuovi cristiani; o di sacrifici incruenti, ma non per questo meno preziosi, offerti giorno per giorno da tanti “operatori di giustizia”, nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e nelle apposite sedi istituzionali, così come nell’apostolato laicale e nelle situazioni più ordinarie della vita.
E arriviamo così al terzo rapporto, quello tra la misericordia e la responsabilità. Chi entra nel flusso della misericordia non può restare inerte, perché il bene produce altro bene, esattamente come il male produce altro male. E chi il bene l’ha gustato, il male non lo può più sopportare.
La parabola del Vangelo, letta superficialmente, sembrerebbe screditare tutto il discorso che abbiamo fatto e anche quest’ultimo risvolto, perché parla di un amministratore disonesto che, chiamato a rendere conto, continua fin quando può ad agire in maniera ingiusta per assicurarsi dei vantaggi, una volta spodestato ed esautorato. Ma, se la leggiamo attentamente, ci dice tutt’altro. Ci dice che è necessario decidere di agire e farlo in fretta, senza perdere tempo e prima che sia troppo tardi, perché quando si sta perdendo tutto si deve salvare il salvabile. E il salvabile, al di là di tutto, è la certezza di non restare soli, per avere ancora qualcuno su cui poter contare e con cui poter ripartire. Ma ci dice anche che i tentativi più improbabili di salvezza nascondono sempre una potenzialità, seppur minima e nascosta, di bene, destinata prima o poi a portare frutto. E il frutto, a ben vedere, pure l’amministratore disonesto della parabola ha cominciato a portarlo, perché, riducendo illecitamente le somme dovute dei debitori del suo padrone, senza neppure rendersene conto, è entrato in quella logica della gratuità, che è la porta di accesso alla misericordia.
Se la speranza c’è per lui, ci può essere per tutti. E questo Giubileo – ha concluso – posto nel segno della speranza, sulla scorta della Parola cha abbiamo ascoltato, davanti a quel corpo eccezionalmente ripresentato alla pubblica venerazione, sia per tutti l’occasione che fa la differenza. Il beato Rosario, nostro fratello nella vita, nella fede e — per tanti di voi — nell’esercizio della professione, accompagni e sostenga i nostri passi sulla strada che lui, alla sequela del Buon Pastore, ha percorso. Maria, Stella del mattino, la rischiari e, con il suo amore materno e la sua premurosa intercessione, ci aiuti a raggiungere la meta.”
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