Natale2022, mons. Alessandro Damiano: «Che sia un Natale speranzoso»

Pubblichiamo il testo con gli auguri di Natale dell’arcivescovo, mons. Alessandro Damiano, alla Chiesa e al territorio agrigentino.

Carissimi e carissime nel Signore,

per formularvi i “classici” auguri natalizi, desidero servirmi di due registri linguistici: ossia di “parole visibili” e di “parole udibili”. Inizio dalle “parole visibili”, ovvero da un quadro presente nel nostro Museo della Cattedrale di Agrigento, raffigurante un Bambino Gesù dormiente su una croce. L’autore non è conosciuto, gli esperti datano il dipinto nel XVIII secolo. Siamo davanti a un’immagine che potremmo definire, quanto meno, inusuale, poco comune e poco nota. Di solito, infatti, il Cristo neonato lo troviamo raffigurato disteso in una mangiatoia; così come leggiamo nel Vangelo secondo Luca (cf. 2, 7).

Gesù Bambino dormiente sulla croce, Palazzo Arcivescovile. Mudia.

Chiediamoci: come mai l’anonimo pittore adagia il Divino Bambino su una croce? perché questa scelta? Le risposte possono essere varie e variegate. Anzitutto, l’immagine può rimandare a una ipotesi teologica molto cara a San Tommaso d’Aquino (1225-1274): Gesù, in quanto Figlio di Dio incarnato, fin dal primo istante del suo concepimento da Spirito Santo nel grembo della Vergine Maria, gode – afferma l’Aquinate – nella, per così dire, “punta suprema” della sua anima della “visione beatifica” di Dio e del suo piano di salvezza, quindi conosce già il suo destino “pasquale”, la sua morte e risurrezione (cf. Summa Theologiae III, q. 34, a. 4). A questa prima motivazione teologica è possibile, però, affiancarne una seconda: l’incarnazione trova il suo fine e la sua pienezza nel mistero pasquale, nella morte e risurrezione di Gesù. Il rimando alla passione – infatti –, alla morte, al mistero pasquale nel quadro è evidente. Il Figlio di Dio si fa uomo per morire “per noi e per la nostra salvezza” (Simbolo niceno-costantinopolitano), per liberarci una volta per tutte dalle morti quotidiane (i nostri peccati, cadute, mancanze) e dalla morte finale (fisica e spirituale).

Se ci pensiamo bene, nelle icone bizantine la mangiatoia, nella quale viene coricato il neonato Gesù, è sovente raffigurata nella forma di un sepolcro e le bende che avvolgono il corpicino del Bambino Divino, rimandano alle bende e al sudario che fasciano il corpo di Gesù nella tomba. Nel nostro caso, il sepolcro (che funge da culla) viene sostituito dalla croce e le bende dal piccolo lenzuolo bianco collocato tra la croce e il Bambino. Inoltre, il sonno di Gesù indica la sua morte, che però, appunto come un sonno, è destinata a un “risveglio”, alla risurrezione dei morti. Il lenzuolo bianco e il sonno rimandano, quindi, non solo alla morte di Gesù ma anche e soprattutto alla sua risurrezione, alla sua vittoria definitiva sulla morte e su ogni morte. A queste due ragioni, che ricavo dalla storia della teologia cristiana, desidero affiancarne una terza. Il Divino Bambino coricato su una croce è simbolo e cifra di tutti i bambini usati, abusati e sfruttati. Di tutti i bambini la cui vita è troncata da guerre, fame, malattie, abusi. Sì, Dio non è indifferente né accondiscendente alle loro tragedie e miserie. Dio a Betlemme si fa uno di loro per stare e soffrire con, in e per loro e in ogni sofferenza e sofferente. Ma questo fiume immenso della sofferenza, fiume striato spesso dal colore rosso del sangue, trova un estuario che è rappresentato dal lenzuolo bianco e dal sonno, ovvero l’estuario della risurrezione della vita che non conosce più la morte. L’estuario della nostra preghiera e della nostra azione che, collaborando con la Provvidenza, si adoperano al fine di schiodare dalla croce ogni sofferenza e ogni sofferente.

Accanto a “parole visibili” ho scelto alcune “parole udibili”. Si tratta di una frase di un grande vescovo di Milano: Sant’Ambrogio (340c. – 397). Il catecumeno divenuto vescovo a furor di popolo. L’ex funzionario statale e imperiale trasformato in buon pastore della Chiesa di Milano, il vescovo che battezzò il grande Sant’Agostino (354 – 430). È una frase che compare in un suo commento al Salmo 118: «Esso (il Figlio di Dio) salta dal cielo nella vergine, dal suo grembo nel presepio, dal presepio nel Giordano, dal Giordano sulla croce, dalla croce nella tomba e dalla tomba in cielo». Anche in questo caso il “saltare” del Verbo incarnato ha il suo traguardo non nella “tomba”, ma “in cielo”.

Sì, carissimi fratelli e sorelle, possiamo e dobbiamo sempre sperare che la pace vinca sulla guerra, il bene sul male, il rispetto sull’abuso, la vita sulla morte. A Natale Dio si fa neonato, per indicare che è sempre possibile nascere e rinascere, risorgere dalle ceneri del male e della morte.

Ho letto da qualche parte che sant’Isidoro di Siviglia (560 c. – 636), fa derivare la parola latina “spes” (speranza) dal latino “pes” (piede). Sì, carissimi fratelli e sorelle, la speranza – che per noi cristiani ha un nome ben preciso: Cristo risorto – è ciò che ci permette di camminare in questa vita, che ci fa «sperare contro ogni speranza» (cf. Rm 4, 18), che ci fa schiodare dalle croci i sofferenti e i piangenti.

Che sia un Natale, dunque, non ansioso, ma speranzoso. Che sia un Natale di una «speranza che non delude» (cf. Rm 5, 5). Che sia un Natale in cui possiamo cantare con il salmista: «Hai mutato (o Dio) il mio lamento in danza, mi hai tolto l’abito di sacco, mi hai rivestito di gioia» (Salmo 30, 12). Che sia, dunque, un Natale speranzoso per tutti e per ciascuno!

† Alessandro, vescovo