Meeting di Rimini, mons. Damiano: “Livatino insegna a liberare la santità che è in noi”

Pubblichiamo l’intervista che Francesco Inguanti, direttore responsabile di “Giornotto”Mensile dell’Arcidiocesi di Monreale, ha realizzato con mons. Alessandro Damiano a Rimini per la la  43ª edizione del Meeting  per l’amicizia fra i popoli. Qustanno, come abbiamo scritto (vedi), al Meeting ( Padiglione C3) è stata allestita una mostra sul beato Rosario Livatino dal titolo: “Sub tutela dei” ed è stato esposto il reliquiario del Beato. All’apertura erano presenti l’Arcivescovo Alessandro, don Gero Manganello, custode della reliquia, e  l’associazione “Casa Museo Giudice Livatino” e don Ignazio Bonsignore. 

  •  Eccellenza, è la prima volta che viene al Meeting. A cosa si deve questa decisione?

Sì, è vero, è la prima volta che vengo al Meeting di Rimini. Mi ci ha condotto la richiesta da parte degli organizzatori che alla mostra in programma fosse esposta la reliquia del beato Rosario Livatino.

  • In cosa consiste?

La teca conserva la camicia che il beato indossava il giorno dell’omicidio. È un capo di abbigliamento normale, quotidiano, ma particolare. Perché intrisa di sangue, e porta i segni dei fori dei proiettili.

 

  • E cosa l’ha colpito del Meeting?

Mi ha colpito fin dal mio arrivo l’affollamento di persone. Prima che aprisse c’erano già 2.500 prenotazioni, ma con il ritmo che ho notato solo il primo giorno chissà a quanto arriveremo.

  • Parliamo adesso di Rosario Livatino. Chi è per lei?

Livatino è un laico cristiano, quindi beato, perché i cristiani sono beati, sono santi, non ci devono diventare attraverso atti di volontarismo. Ci siamo diventati – mi ci metto anche io – quando attraverso l’acqua del battesimo siamo risorti con Cristo.

  • Lo spieghi meglio.

Noi siamo santi, forse dobbiamo liberare la santità che è in noi, perché contamini la nostra vita. E Rosario ha fatto questo. Non intendo soffermarsi sugli aspetti della professionalità del giudice Livatino; non mi compete. La mostra tra l’altro fa fare un percorso attentissimo su tutti gli aspetti della vita personale e professionale.

  • Ed allora?

Mi soffermo sull’aspetto legato alla fede che significa consapevolezza del proprio battesimo. Un battesimo che nella vita di Rosario non viene relegato nel rito, ma investe e dà forma alla sua vita. Rosario avrebbe vissuto la novità evangelica, qualunque fosse stata la sua professione. Sono certo che avrebbe vissuto la sua vita nuova, quella che nasce dal battesimo, in qualunque circostanza. Il battesimo non è una annotazione in un registro, ma un cambiamento di vita. È la possibilità di un cambiamento di vita perché se cambia – come dice san Paolo – l’uomo interiore, poi questo cambiamento si manifesta nelle sue azioni esteriori. Spetta a noi che questo uomo interiore si manifesti nelle azioni esteriori. Ma questo dipende da ciascuno di noi.

L’arcivescovo con Francesco Inguanti
  • Ma Livatino è anche un martire. Che significa?

Rosario è martire innanzitutto come testimone ed è possibile essere testimone così, dare questo tipo di impronta ed è per questo che è testimone per tutti. In questa circostanza ci muoviamo su uno spazio valoriale che può essere confessionale ma non solo rivolto ai cattolici.  Avere qui al Meeting, quest’anno in cui si ricordano anche i 100 anni dalla nascita di don Luigi Giussani, questa mostra su Livatino credo sia una occasione per tutti i visitatori presenti, ma anche per quelli che la vedranno quando andrà in giro per l’Italia, per ripensare la propria vita. Per i visitatori cristiani per pensare la propria vita in ordine ai sacramenti. Ma a tutti Livatino insegna come liberare i sacramenti dai riti, così che possano diventare principio d’azione della nostra vita.

  • Di Livatino si parla sempre in termini di modello. Che significa a suo avviso?

Per i non credenti Livatino è certamente un modello di onestà intellettuale e di alta professionalità che non perde mai di vista la persona, sia che si tratti dell’imputato che della vittima o di qualunque collega. Quindi un esempio di uomo adulto, di uomo maturo quasi una risposta a quell’indicazione che troviamo nella costituzione conciliare Gaudium et Spes: “Chi segue Cristo l’uomo perfetto diventa anch’egli più uomo”

  • Si possono considerare Pino Puglisi e Rosario Livatino due facce della stessa medaglia?

Penso di sì. Perché in Livatino per un verso e in Puglisi per altro verso emerge con forza tutta la questione educativa ed è l’elemento che li tiene insieme. Don Pino per il servizio di parroco incarnato nel suo territorio che sapeva leggere intercettando le risposte che venivano fuori attraverso la lente del Vangelo. L’educazione è una delle punte di diamante dell’azione di Puglisi.

  • E Livatino?

Sul fronte della Magistratura Livatino dà una grande lezione e quindi offe un grande stile educativo, in un mondo che non è fuori da zone d’ombre. Livatino è luce. E ormai assodato È luce non solo attraverso la lente della fede, ma anche attraverso la beatificazione: non a caso è il primo magistrato beatificato. Offerto come modello a tutta la cattolicità, anche per il suo stile di fare il magistrato. Un testimone, ma anche un maestro.

  • Come giudica il percorso della Chiesa siciliana nel contrasto al fenomeno mafioso e cosa si può ancora fare?

Negli ultimi trent’anni certamente molto si è fatto ed ha fatto la Chiesa siciliana. Colgo l’occasione per ricordare che c’è un documento della chiesa agrigentina che precede le stragi del maggio del ’92. Un documento dal titolo “Emergenza mafia. Un problema pastorale” che è del mese di aprile. Questo dice come una Chiesa radicata in un territorio che in quegli anni aveva tante vittime da contare per le strade, quella Chiesa si è fatta veramente interrogare, ha saputo leggere e si è esposta per dare una risposta riconoscendo l’emergenza mafia come un problema pastorale.

  • E poi?

Sono seguiti tanti altri messaggi e interventi della Chiesa siciliana, ma forse ciò che è mancato e che si dovrebbe fare è fare in modo che questi contenuti e questi giudizi giungano alla gente, a tutti i fedeli. Che si traducano nella prassi quotidiana e diventino contenuto della catechesi e della educazione del popolo cristiano. La questione della “mentalità mafiosa” va affrontata e chiamata per nome, perché è più pericolosa della criminalità organizzata. E questo fenomeno va smascherato, perché può risiedere anche dentro di me che sto parlando. E quindi necessita innanzitutto di una educazione. Certo tutto ciò è accaduto, ma forse non in modo così capillare come sarebbe stato necessario.