Anniv. tragedia Ravanusa, mons. Damiano: «guardare la realtà con gli occhi di Dio»

Domenica 11 dicembre 2022, primo anniversario della tragedia di via Trilussa a Ravanusa, nella Chiesa madre della città, l’Arcivescovo di Agrigento, mons. Alessandro Damiano, ha celebrato una S. Messa in suffragio delle vittime che un anno fa,  a causa di una esplosione per la una fuga di gas, sono morti, sotto le macerie delle loro abitazioni.  Dieci persone in tutto, tra loro anche Selene, la mamma che da li a poco avrebbe dovuto dare alla luce Samuele, il bimbo che portava in grembo, unitamente al marito Giuseppe sulla cui tomba – nel cimitero di Campobello di Licata, prima della messa – l’Arcivescovo, ha voluto sostare in preghiera, con i familiari ed il clero locale, sotto una pioggia battente che ha accompagnato l’intero pomeriggio anche dopo la Messa, quando, alla stessa ora del violento boato, che ha seminato morte e distruzione nel centro storico di Ravanusa, è stata deposta una corona di fiori sul luogo della tragedia. A pochi metri un quartiere fantasma, dove non è possibile accedere e che porta ancora le ferite della deflagrazione, con 48 famiglie, costrette a non poter rientrare nelle loro abitazioni a causa delle lungaggini della burocrazia per i lavori di messa in sicurezza, rimozione delle macerie e demolizione degli stabili interessati dall’esplosione. Alla S. Messa, concelebrata dai presbiteri della forania di Ravanusa,  erano presenti i familiari delle vittime e gli sfollati, i cittadini di Ravanusa e Campobello di Licata, rappresentati dai rispettivi sindaci, le massime autorità civili e militari della provincia di Agrigento, il prefetto Maria Rita Cocciufa, i vertici provinciali delle Forze dell’ordine, di polizia e soccorso, il Comandante provinciale dell’Arma, Col. Vittorio Stingo, il Comandante provinciale dei Vigili del Fuoco, Giuseppe Merendino , il vice questore Cesare Castelli, ma anche i rappresentati delle associazioni di volontariato. A tutti, al termine della celebrazione, i presenti hanno voluto tributare, con un lungo applauso, il ringraziamento  per il loro generoso impegno profuso nel tempo.

L’Arcivescovo nel suo intervento omiletico, lasciandosi guidare dalla Parola proclamata nella III domenica di Avvento (detta della gioia) che ruota intorno al tema della gioia cristiana per cui è è chiamata “domenica Gaudete” ha evidenziato come «L’invito alla gioia, che caratterizza questa terza domenica di Avvento potrebbe sembrare a prima vista fuori luogo nella triste ricorrenza che oggi commemoriamo”. Come possiamo rallegrarci — o anche solo parlare di gioia, ha detto ai presenti — nel ricordo di una tragedia, la cui ferita è ancora troppo dolorosa? Come possiamo esultare – si è chiesto – di fronte alla vita spezzata delle sue dieci vittime? E come possiamo “cantare con gioia e con giubilo” al pensiero che l’esistenza di noi tutti è sempre precaria ed è esposta continuamente a tante “esplosioni”, più o meno disastrose di quella dell’11 dicembre scorso? Il Vangelo di oggi, parlandoci di Giovanni Battista, che Gesù, per la sua fede, definisce “il più grande fra i nati da donna” — si snoda a partire dalla sua domanda, che  è molto simile alle nostre: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». È simile alle nostre, questa domanda, perché è attraversata dallo stesso dubbio, a cui neppure i più grandi uomini di fede possono sfuggire: come possiamo accogliere Colui che stiamo aspettando, se Lui, venendo, sembra lasciare deluse le nostre aspettative? All’inizio della sua missione — lo abbiamo ascoltato domenica scorsa — Giovanni aveva “preparato la via del Signore” indicandolo come uno che avrebbe agito con giustizia, ma con una giustizia un po’ troppo umana. Per descriverla, aveva usato l’immagine di una «scure posta alla radice degli alberi», con la quale il Messia avrebbe tagliato ogni albero che non dà buon frutto per gettarlo nel fuoco: come se fosse bastata un’azione di forza per eliminare il male dal mondo. Ma così non era avvenuto. Le ingiustizie erano rimaste; e lui stesso, Giovanni, era in carcere proprio per averne denunciata una. Sarebbe più facile e più comodo pensare a un Dio disposto a estirpare il male in tutte le sue manifestazioni, sia quelle che provochiamo con la nostra libertà sia quelle che non dipendono da noi e che siamo costretti a subire. Pensare a un Dio che il male se lo prende addosso ed è pronto a dare la vita per riscattarlo è molto più complicato; anzi, è scandaloso, e per questo rischia di mettere a dura prova la fede e la speranza che in essa si radica.

Anche noi – ha proseguito – durante quest’anno, a mente più o meno lucida, chissà quante volte ci siamo chiesti perché Dio non abbia fermato quella tremenda esplosione, così come ci viene da chiederci perché non metta fine a tutte le disgrazie di cui è piena da sempre la storia umana. Sono domande – ha detto – del tutto lecite e probabilmente anche necessarie, perché ci mettono nelle condizioni di purificare la nostra fede.

La conversione con la quale dobbiamo “preparare la via del Signore” – ha continuato invitando i presenti ad uno sguardo altro, illuminato dalla Parola –   non riguarda prima di tutto le nostre scelte e le nostre azioni, ma la mentalità, la logica con la quale pensiamo il senso della nostra esistenza e di tutti i suoi misteri di gioia e di dolore. La posta in gioco – ha ammonito – è altissima, ma qui veramente ci giochiamo tutto, sia nella vita presente sia in quella futura. Come Giovanni Battista dobbiamo deciderci se continuare a puntare sulle nostre aspettative, mettendo in discussione la novità inattesa di Colui che stiamo aspettando, o se accogliere l’Atteso, mettendo in crisi ciò che da Lui ci aspettiamo.

Quando ci decidiamo ad accoglierlo – ha detto – immediatamente cambia tutto: non perché cambia la realtà, ma perché cambiamo noi di fronte a essa. E noi, nel cuore della nostra tragedia, ne abbiamo una prova schiacciante.»

Ha poi fatto riferimento alle parole di Eliana pronunciate l’anno scorso durante i funerali (vedi) «Più forti del boato dell’esplosione di via Trilussa – ha detto – , risuonano ancora nelle nostre orecchie le parole che Eliana quando ci ha voluto parlare non del suo immenso dolore ma della sua ferma speranza, invitandoci a “volgere lo sguardo alle cose che durano per sempre». «In questo dolore — ci ha detto Eliana — Gesù ci ha inondato della sua grazia, della sua forza. Ho perso tutto, ma è arrivata una forza sovrumana, una serenità interiore, che solo Dio può dare. La croce è pesante, molto pesante, però con Cristo tutto diventa più leggero”. E ancora: “Non maledico Dio; continuo a benedirlo e a ringraziarlo, perché ho la piena certezza, la viva certezza che loro sono in Cristo, in un posto sicuramente migliore di questo”.

Sono parole profetiche quelle di Eliana – ha affermato l’Arcivescovo –  perché ci fanno guardare la realtà con gli occhi di Dio, anziché con quelli del mondo. Sono parole che non si possono pronunciare una volta per tutte, ma che dobbiamo ripetere ogni volta che il vuoto e il dolore si fanno sentire, con la pazienza dell’agricoltore di cui ci ha parlato la seconda lettura. La fede va coltivata con la capacità di sopportare le avversità e con la costanza nella sopportazione. E poi bisogna mettersi in attesa che il frutto maturi, aiutandolo a crescere per quanto dipenda da noi, ma sapendo che solo una forza misteriosa — proprio quella di cui parlava Eliana — può portarlo a piena maturazione. È questa la gioia a cui oggi siamo invitati: non un vago sentimento di benessere, che sarebbe illusorio e che è destinato a passare non appena il vuoto diventa più profondo e il dolore più insopportabile; ma la fiducia nel Dio della vita, che ci dona la serenità interiore di affrontare le peggiori battaglie, sapendo che si concluderanno sempre con una vittoria, anche quando agli occhi degli uomini sembrerà una sconfitta. Dalla fede non possiamo aspettarci certezze assolute né vittorie a prezzi scontati. Ma credere che Colui nel quale abbiamo riposto la nostra fiducia è affidabile ci può e ci deve aiutare a smontarle, le nostre certezze, e a riporle unicamente in Lui. «Il Signore rimane fedele per sempre, rende giustizia agli oppressi», come abbiamo detto nel Salmo. E Giovanni Battista, nel quale è condensata tutta l’attesa di Israele e dell’umanità, con la sua ricerca attraversata dal dubbio e con la sua accoglienza carica di fiducia, ci invita a fare questo atto di fede, che è come un salto nel vuoto, nella certezza che solo Dio lo può riempire. Giovanni Battista con la sua predicazione nel cuore del deserto, come Eliana con la sua testimonianza nel cuore del disastro. Ma se il Battista   è “il più grande fra i nati da donna” perché accompagna e introduce l’attesa di Israele e dell’umanità nell’accoglienza incondizionata di Cristo, «il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui». Oggi di questo «più piccolo» – ha concluso – noi conosciamo il nome, anche se non abbiamo potuto conoscere il suo volto. E il suo nome è Samuele. È il più piccolo non per l’età, che non abbiamo neppure potuto contare, ma perché è il segno dell’umanità nuova nata dal sacrificio di Cristo, che Giovanni ha indicato, ma a cui non ha potuto assistere, perché si è dovuto sacrificare prima. Per noi oggi Samuele è il segno dell’umanità nuova che può ancora recuperare l’innocenza dei piccoli, con cui guardare diversamente la realtà e gioire nonostante tutto: quell’innocenza che in Samuele, non avendo fatto in tempo a nascere, è rimasta del tutto incontaminata, ma che noi, pur avendola perduta, possiamo recuperare. Sta a noi volerlo e deciderci a farlo. In questo modo si irrobustiscono le mani fiacche e si rendono salde le ginocchia vacillanti, secondo la profezia di Isaia (I lettura): le mani fiacche di chi pensa di non avere più nulla da fare e le ginocchia vacillanti di chi si lascia paralizzare dalla delusione di non avercela fatta o dalla paura di non potercela fare. A volte saranno le nostre mani e le nostre ginocchia; e allora sarà necessario ridirci quelle parole profetiche, per ridare speranza al nostro dolore. Altre volte saranno le mani e le ginocchia di quelli che incontriamo sulla nostra strada; è allora sarà necessario sostenerli, ripetendo — se è il caso — quelle parole o — quando è più opportuno tacere — traducendole nei gesti della solidarietà e nell’esercizio delle responsabilità, sia quando possiamo rimediare alle tragedie sia quando dobbiamo fare di tutto per prevenirle. Così quella strada, che insieme percorriamo, diventerà «via santa» e «su di essa ritorneranno i riscattati dal Signore». Così «felicità perenne splenderà sul loro capo, gioia e felicità li seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto». Così si rallegreranno il deserto e la terra arida, esulterà e fiorirà la steppa. E sarà gioia vera, lo sarà per tutti, lo sarà per sempre.»

Al termine della celebrazione ha preso la la parola il sindaco di Ravanusa, Carmelo D’Angelo:  “E’ la giornata del ricordo e della memoria – ha detto –  che abbiamo voluto fare con sobrietà, dedicandoci alla preghiera per non dimenticare tutto quello che è stato e chi, purtroppo, non c’è più. Il mio – ha detto ai familiari delle vittime – vuole essere l’abbraccio caloroso e rispettoso del vostro dolore, della comunità. Quest’abbraccio ha continuato, non servirà a chiudere una ferita aperta e dolorosissima, mi auguro serva a far crescere quella cristiana speranza per vivere la quotidianità con pace e serenità.”

Prima dell’atto di affidamento alla Madonna e la benedizione finale  l’Arcivescovo, ha ringraziato i presnenti, le autorità civili e militari, le Forze di Polizia e gli uomini del soccorso; “impariamo – è stato l’augurio finale – ciascuno per le proprie responsabilità e competenze,  a impegnarci per il bene comune in tutti i suoi aspetti”

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Carmelo Petrone