SPECIALE GIUBILEO DIOCESI: Le parole, le immagini e i volti

Giubileo5Doveva essere un momento di Chiesa è tale è stato il Giubileo diocesano di sabato 5 marzo al PalaMoncada di Porto Empedocle. Doveva essere, nell’intenzione dell’Arcivescovo che lo ha convocato, «un’occasione per trovare misericordia» ma anche «possibilità per esercitarci a essere misericordiosi, capaci cioè di recuperare uno sguardo sincero con cui guardare il mondo e gli uomini e le donne che lo abitano» e questo è stato.
Il Pastore della Chiesa agrigentina, unitamente ai presbiteri, ai diaconi, ai religiosi e alle religiose, e ad oltre 2.500 laici in rappresentanza delle 193 parrocchie dell’Arcidiocesi hanno celebrato il Giubileo diocesano compiendo un atto personale e comunitario di misericordia.
Insieme si sono chiesti che cosa significhi essere misericordiosi diventando «comunità dal volto nuovo per una nuova presenza nel territorio», a partire dalla riflessione avviata – nelle 5 zone pastorali – nei primi due moduli del Progetto Formativo Unitario (PUF); ma ancora come abitare in modo nuovo il nostro territorio, recuperando lo stile dell’iniziazione cristiana e superando la tentazione dell’autoreferenzialità, dell’autocompiacimento e dell’autoconservazione?
Dopo un momento di accoglienza iniziale, di composizione dell’assemblea e “del luogo” che ha ricordato ai presenti che anche un palazzetto dello sport può diventare spazio sacro a condizione di sapervi scorgere la presenza di Dio che si manifesta nei segni della fede, ci si è posti in ascolto della Parola per rincentrare in essa ogni riferimento della fede e della vita. Su questo sfondo si è aperta una riflessione “dialogica”, durante la quale sono stati presentati al Pastore della Chiesa agrigentina criticità, limiti e punti deboli emersi nei laboratori del PFU, come in una sorta di esame di coscienza comunitario; a questa lettura e alle domande che ne sono venute fuori il card. Montenegro, ha risposto dando indicazioni e suggerimenti e al termine i presenti hanno rinnovato la professione di fede battesimale e gli impegni per proseguire il cammino intrapreso. La S.Messa con la preghiera per ottenere il dono dell’indulgenza giubilare ha concluso il momento assembleare

Ecco i testi, i video e le immagini del Giubileo

 

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LA RIFLESSIONE DIALOGICA

Il primo momento del Giubileo, quello della “riflessione dialogica” è stato ricco di spunti e di indicazioni da parte dell’Arcivescovo che si è posto in ascolto della Chiesa agrigentina. Due rappresentanti dell’assemblea hanno illustrato il cammino compiuto nelle prime due tappe del Progetto Formativo Unitario.

Prima ancora il vicario per la pastorale, don Giuseppe Agrò ha delineato lo scenario dentro cui la Chiesa agrigentina é chiamata ad operare. (Vai al video)

G30Quello che stiamo vivendo è un momento storico particolarmente complesso e difficile. La realtà nella quale siamo immersi sta cambiando vertiginosamente, tanto che ormai da diversi anni si parla di una vera e propria svolta epocale, i cui risvolti sono ancora imprevedibili. Dobbiamo riconoscere che spesso ci troviamo impreparati a confrontarci con questa nuova realtà e a sapervi incidere in modo adeguato ed efficace. A volte rischiamo addirittura di restare spiazzati davanti a tante richieste, spesso silenziose, di chi ci vive accanto e si aspetta da noi il “di più” che viene dalla fede; o di fronte a tante risposte, talora imbarazzanti, di chi ci guarda e non trova in noi le ragioni della speranza cristiana. Ci rendiamo tutti conto di quanto – oggi più che mai – sia difficile programmare e portare avanti un’azione pastorale condivisa, capace di superare tante visioni parziali e di far confluire gli sforzi di tutti e di ciascuno verso un servizio autentico al Vangelo e alla storia. Fin dall’inizio di questo anno giubilare, proseguendo il cammino di rinnovamento ecclesiale intrapreso negli ultimi anni, abbiamo accolto l’esortazione rivoltaci dal Vescovo a compiere un generoso atto di misericordia verso la nostra Chiesa Agrigentina e verso il nostro territorio, come opportunità di un serio ripensamento della nostra identità cristiana e di un profondo riscatto degli uomini e delle donne del nostro tempo alla luce del Vangelo. E per questo oggi ci troviamo qua. Siamo ben consapevoli che essere “misericordiosi come il Padre” significa innanzitutto purificare il nostro sguardo interiore ed esteriore, per vedere con gli stessi occhi di Dio, sentire con il suo stesso cuore e agire di conseguenza, poiché è attraverso ciascuno di noi che Lui continua a farsi presente qui e ora per tutti, vicini e lontani, credenti e atei, battezzati e non. E così, con le tappe scandite dal Progetto Formativo Unitario di quest’anno, ci stiamo rimettendo in discussione e ci stiamo ascoltando reciprocamente per aprire nuove prospettive di presenza e di azione nella Chiesa e nel mondo. Oggi – ha concluso rivolto all’Arcivescovo –  in questo primo evento giubilare diocesano, rispondendo al suo invito, ci ritroviamo volentieri attorno a Lei, carissimo don Franco, per fare insieme il punto della situazione sul cammino compiuto nelle prime due tappe di questo percorso e per lasciarci guidare sulle strade che il Signore ci sta aprendo davanti, scommettendo ancora su di noi e continuando a inviarci in questo tempo come ha fatto con i primi discepoli duemila anni fa.

La presenza nel territorio e la sfida delle Unità/Comunità Pastorali

La prima e più urgente questione da prendere in considerazione riguarda la modalità effettiva della nostra presenza nel territorio, che finora si è attuata in riferimento alla Parrocchia e che ora richiede forme nuove, più rispondenti all’attuale contesto sociale e culturale. Questa prima questione si pone a due livelli: il livello delle 41 Unità Pastorali formalmente già costituite in diocesi e quello della collaborazione tra parrocchie distinte dello stesso territorio. Due rappresentanti dell’Assemblea ci aiuteranno adesso a definire i termini del discorso, secondo quanto emerso nei laboratori effettuati con il clero e con gli operatori pastorali.

Un rappresentante dell’Assemblea si è rivolto all’Arcivescovo con queste parole (vai al video):

Riguardo alle 41 Unità Pastorali già costituite, emergono vari tratti comuni e diversi elementi specifici. Questo dipende, ovviamente, dalla diversità delle situazioni: alcune sono attive già da tanti anni, altre stentano ancora ad avviarsi; alcune possono contare sulla presenza di più sacerdoti, altre si ritrovano con un solo parroco per più parrocchie; alcune risentono di una forte identità cristiana e di un grande senso di appartenenza ecclesiale, altre devono fare i conti con una profonda dispersione, non solo culturale ma anche religiosa; alcune dispongono di unIMG_3622 laicato ben formato e responsabile, altre sono quasi sprovviste di laici seriamente coinvolti e impegnati; alcune operano in contesti sociali relativamente stabili, altre devono far fronte a situazioni di vecchie e nuove povertà non indifferenti.

Dal confronto di tutte queste esperienze ci siamo resi conto che la prima criticità che le nostre Unità Pastorali incontrano consiste nella mancanza di gradualità con cui sono state avviate e, soprattutto, nella mancanza di un’adeguata formazione, sia dei presbiteri sia degli operatori pastorali sia delle comunità parrocchiali nel loro insieme.

Questo comporta un generalizzato disappunto e provoca notevoli resistenze: da parte di anziani che si vedono negata la possibilità di partecipare agevolmente a messa ogni giorno e soprattutto nei momenti forti dell’anno; di persone di ogni età fortemente legate alle consuetudini proprie della parrocchia e alle abitudini consolidate nel tempo; di operatori pastorali abituati a un certo stile di corresponsabilità e collaborazione dentro i confini parrocchiali, ma impreparati a mettere in rete le risorse; di gruppi ecclesiali che non si sentono sufficientemente seguiti e stimolati dai sacerdoti che mancano e hanno troppi impegni; degli stessi presbiteri costretti a ripensare un modello di vita sacerdotale acquisito durante gli anni della formazione e maturato attraverso un’esperienza pastorale a volte di una vita intera.

Le difficoltà maggiori si riscontrano in alcuni punti nevralgici: nel sovraccarico di lavoro che grava sulle spalle dei parroci; nelle chiese che spesso restano chiuse e vuote; nella distribuzione delle messe nelle varie parrocchie; nella diffidenza con cui talora si guarda all’altra parrocchia quasi come a una terra straniera, con la quale entrare in competizione per non perdere i propri diritti, piuttosto che in collaborazione per assolvere agli stessi doveri. Spesso, paradossalmente, avviene che prima della costituzione dell’Unità Pastorale l’unità di fatto esiste, mentre appena la si istituisce si perde, quasi sempre per la paura di perdere il “proprio”.

Certo, al di là delle difficoltà riscontrate, là dove ci si sforza di aprirsi a queste nuove forme di comunione e collaborazione si cominciano a vedere anche i primi risultati positivi: cresce il coraggio di mettersi in discussione, si costruisce una nuova mentalità di fede, si superano i particolarismi, si abbattono i muri delle divisioni, si accrescono le relazioni, si rafforzano le competenze, si moltiplicano le risorse, aumenta la gioia dello stare insieme. Stiamo cominciando a capire, forse anche grazie ad alcuni tentativi fallimentari, che non è questione di riorganizzare le strutture parrocchiali in funzione della diminuzione del numero dei sacerdoti, ma di ripensare la pastorale in modo da costruire “la” comunità cristiana e metterla nelle condizioni di dialogare con il territorio e servire le persone che lo abitano, al di là dei confini delle parrocchie che non coincidono più con quelli della vita sociale.

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L’Arcivescovo, Francesco Montenegro ha risposto con le parole che seguono offrendo all’Assemblea delle considerazioni sulle Unità pastorali (vai al video)

Riconosco le difficoltà, ma ormai esse sono  una necessità. Non solo e non tanto perché mancano i preti, ma perché sono cambiate le condizioni e gli stili della vita e le parrocchie come centri isolati, secondo il modello tradizionale, non sono più in grado di far fronte alle nuove esigenze non esiste ancora un modello definito e unitario nello scenario della Chiesa in Italia, ma diversi tentativi con esiti molto diversi quelle costituite finora – così come nelle altre diocesi italiane e non solo nella nostra – sono un tentativo ancora insufficiente, una tappa intermedia e non una soluzione definitiva: ci proiettano verso un futuro che non c’è ancora e che dobbiamo pensare e costruire insieme, a partire soprattutto dagli errori commessi e dalle difficoltà incontrate.

È necessario un progetto di Chiesa, che coinvolga tutte le parrocchie in una nuova visione pastorale ad ampio raggio, e non una strategia per “sistemarne” soltanto alcune dove mancano i parroci, si tratta di trovare una modalità nuova per assolvere più efficacemente alla missione evangelizzatrice della Chiesa attraverso una collaborazione pastorale integrata e organica: deve consistere in una cooperazione stabile – un’alleanza – fra parrocchie, piuttosto che nell’accorpamento di parrocchie sotto la guida di un unico parroco, capace di promuovere le varie ministerialità e di mettersi a servizio dell’intero territorio e non soltanto di una sua parte.
Voi stessi – ha proseguito il card. Montenegro –  avete individuato tra le maggiori criticità la mancanza di formazione e di gradualità. Dobbiamo riconoscere che finora quasi tutte le UP sono nate dal bisogno di tamponare un’emergenza: la diminuzione del numero di sacerdoti ci ha costretti a trovare soluzioni immediate nel giro di pochissimo tempo perché nessuna parrocchia restasse priva della guida di un parroco approfitto di questa circostanza per ringraziare pubblicamente e incoraggiare quanti, pur con enormi sacrifici, hanno accettato di mettersi in gioco e stanno lavorando con perseveranza e generosità nelle 41 UP della nostra arcidiocesi.

Adesso occorre un progetto condiviso, che raccolga i frutti delle sperimentazioni già in atto in diocesi, e trovi espressione in uno strumento-guida per la vita delle Comunità Pastorali già lo scorso anno ho incaricato il vicario per la pastorale di visitare tutte le UP per ascoltare i vostri racconti e avviare un serio discernimento ecclesiale a riguardo  nel frattempo ho chiesto al Consiglio Presbiterale di avviare un attento lavoro di studio per elaborare un direttorio da mettere a servizio di tutti. Il direttorio è ora in fase di redazione e presto sarà una guida pratica non solo per le UP già costituite, ma per tutte le parrocchie della nostra diocesi, perché quella delle Comunità Pastorali diventi sfida e opportunità per tutti. Oggi vorrei soffermarmi in particolare su alcuni aspetti di questa nuova forma di presenza e di azione che ci interpellano in quanto espressioni della misericordia di Dio e della sua Chiesa verso il mondo. Aprire le nostre parrocchie alla logica dell’UP significa aiutarle a uscire dall’isolamento e dall’accentramento che le porta a rinchiudersi in se stesse e a inaridirsi: essere misericordiosi significa prima di tutto saper guardare oltre se stessi e riconoscere l’altro. A malincuore assistiamo talvolta alla mancanza di dialogo e comunione tra gruppi e persone, se non addirittura, soprattutto nei piccoli centri, a forti divisioni e contrapposizioni tra parrocchie, che scandalizzano chi ci guarda dal di fuori e ci allontanano dall’ideale della comunione fraterna che la Chiesa deve sempre perseguire: essere misericordiosi significa accogliere l’altro come fratello, superando – se ce ne fosse bisogno – rancori e risentimenti. All’interno delle stesse parrocchie, inoltre – so che in tanti l’avete indicato nei laboratori della proposta formativa diocesana – si nota talora un pericoloso attaccamento al posto e al ruolo, che ci fa ammalare di protagonismo: essere misericordiosi significa rivestirci di umiltà per metterci accanto agli altri, camminare insieme come fratelli e perseguire il bene comune. C’è poi il rischio più pericoloso, quello dell’arroccamento nelle abitudini e in quello che si è sempre fatto: essere misericordiosi significa essere disponibili alla novità, con il coraggio di rimettersi sempre in discussione in vista di un bene sempre più grande. Auspicando che con la proposta pastorale diocesana dei prossimi anni la sfida delle Comunità Pastorali orienti il nostro impegno verso una rifioritura della vita ecclesiale nei nostri paesi, chiedo a tutti un forte respiro di ecclesialità: il legame alla parrocchia è fondamentale per maturare il senso di appartenenza alla comunità ecclesiale – questo tutti lo sappiamo e nessuno lo deve mettere in dubbio – ma se l’appartenenza alla propria parrocchia esaspera le divisioni e crea antagonismi non stiamo facendo Chiesa.

Vorrei ricordare che l’unità della comunità ecclesiale in un dato territorio è la prima forma di testimonianza cristiana e ci permette di unire le forze per una presenza più incisiva nella vita dei nostri paesi. La comunità ecclesiale di Porto Empedocle, che oggi ci ospita, proprio nei giorni scorsi si è fatta portavoce del disagio sociale della città: ciò è stato possibile perché le cinque comunità parrocchiali hanno saputo creare una rete di occhi aperti sulla realtà e soprattutto perché hanno saputo unire le loro voci, che altrimenti sarebbero rimaste sole e deboli. Solo nella prospettiva di un’intesa e di un impegno comune le nostre parrocchie potranno diventare presenza viva e attiva nel territorio e potranno offrire una testimonianza del Vangelo che diventi anche promozione umana, difesa della dignità delle persone e delle famiglie, denuncia del male e della corruzione, costruzione di un ordine sociale più giusto e fraterno. Anche questo – e forse soprattutto questo – è misericordia: prendere su di sé le sorti di un territorio che rivendica una giustizia troppo spesso negata. Ricordiamoci che il primo atto di misericordia di Dio verso Israele è l’ascolto del grido e del pianto di un popolo ridotto in schiavitù e offeso nella sua dignità, con la conseguente decisione di scendere al suo fianco per guidarlo verso la libertà: le nostre comunità saranno “misericordiose come il Padre” solo se sapranno mettere al primo posto l’interesse per il territorio e per gli uomini e le donne che lo abitano; proprio il territorio ci dà la misura dell’impegno: non il confine parrocchiale, dove l’altra parrocchia – come avete detto prima – rischia di diventare “terra straniera” e dove rischiamo di nasconderci per far finta di non vedere. Capiamo allora l’importanza della comunione fra le parrocchie, prima e al di là del progetto delle Unità Pastorali: il primo sforzo che vi chiedo è di non considerarvi come tante realtà a se stanti, ciascuna compiuta in se stessa, autonoma e indipendente rispetto alle altre, o addirittura in competizione con quelle vicine. Misericordia – ve l’ho già detto – è fare spazio all’altro e creare intesa, superare le divisioni e favorire l’incontro: se questo vale per tutti, deve valere in primo luogo per le nostre parrocchie. So che già si promuovono tante iniziative a livello cittadino o almeno interparrocchiale (i percorsi dei fidanzati, in alcuni casi anche la pastorale di iniziazione dei bambini e dei ragazzi, la pastorale delle famiglie e dei giovani, l’esercizio della carità e il volontariato, vari momenti della vita liturgica e della pietà popolare, alcuni eventi della vita sociale): facciamo in modo che non si tratti di eventi sporadici e occasionali senza continuità, ma che diventino il punto di partenza di un cammino comune stabile delle nostre comunità ecclesiali. Per questo vorrei sollecitare anche la costituzione e l’opera dei Consigli Pastorali cittadini come luogo di incontro e di sintesi della vita della Chiesa nel territorio.

Se l’attenzione al territorio ci dà la misura dell’impegno e la dimensione della comunione, al di là dei confini parrocchiali e di una pastorale di autoconservazione delle parrocchie, la lettura del territorio che da diversi anni vi sto chiedendo costituisce un ulteriore atto di misericordia: conoscere a fondo la trama della vita dei nostri paesi è condizione necessaria per ripensare l’identità e l’azione delle nostre comunità ecclesiali. Mi rendo conto delle fatiche che questo lavoro comporta, ma ne vale la pena e soprattutto è un dovere che abbiamo nei confronti della nostra gente: non possiamo programmare alcuna azione pastorale senza aver prima considerato la reale configurazione del nostro territorio, i suoi bisogni e le sue attese, le sue risorse e le sue criticità
‣    ringrazio tutti quelli che in questi anni ci hanno creduto e l’hanno portata avanti, ma vorrei incoraggiare anche i più scettici e quelli che non sono ancora riusciti a cominciarla o a proseguirla: non prendetela come un capriccio del Vescovo, ma – lo ribadisco – come un dovere e un atto di misericordia verso la nostra gente. Un buon medico può prescrivere una buona terapia solo dopo aver fatto un’indagine accurata e una diagnosi precisa: questo vale anche per noi. Dallo scorso mese l’equipe diocesana è di nuovo al lavoro per sostenere le parrocchie in questo impegno: vi prego di rispondere alle sollecitazioni che sta offrendo e di contattarla per ogni tipo di problema; non lasciamoci sfuggire questa opportunità.

 

Volti

Il nuovo volto delle comunità e la sfida dell’iniziazione cristiana

Il vicario per la pastorale, don Giuseppe Agrò, ha così introdotto il secondo tema della riflessione dialogica (vai al video).

Dopo aver dedicato il primo modulo della formazione unitaria al rapporto tra la comunità ecclesiale e il territorio, nel secondo modulo ci siamo soffermati sul nuovo volto da dare alle nostre comunità, a partire dalla valutazione della cosiddetta “pastorale ordinaria” che impegna quotidianamente le nostre parrocchie e dalle indicazioni sulla trasmissione e il risveglio della fede in chiave di iniziazione cristiana sul modello catecumenale. Abbiamo tenuto in grande considerazione il magistero di Papa Francesco, contenuto soprattuto nella Evangelii Gaudium, e le indicazioni della Conferenza Episcopale Italiana, sia negli Orientamenti Pastorali di questi ultimi due decenni sia nelle Note che nel frattempo sono state pubblicate. E abbiamo condiviso anche il cammino della Chiesa Italiana che proprio quest’anno – lo scorso novembre – ha celebrato a Firenze il V Convegno Ecclesiale Nazionale sul “nuovo umanesimo in Gesù Cristo”.

Due rappresentanti dell’Assemblea si sono rivolti all’Arcivescovo con queste parole (vai al video)

Invitati a valutare l’azione pastorale delle nostre parrocchie, ci siamo resi conto che ordinariamente impegniamo quasi tutte le nostre risorse nella “pastorale dei vicini”, mentre solo occasionalmente ci rivolgiamo ai non praticanti e quasi per nulla ai non battezzati. Le forme di questa “pastorale ordinaria” sono ben note a tutti e si ritrovano pressoché in tutte le nostre parrocchie, anche se con espressioni e risultati diversi a seconda delle situazioni: il catechismo dei piccoli, le attività dell’oratorio, la catechesi degli adulti, la visita agli ammalati e alle case di cura e di riposo, la Caritas, il gruppo liturgico, la formazione degli operatori pastorali, la scuola di preghiera, le iniziative proprie dei tempi forti. Gli organismi di partecipazione – il Consiglio Pastorale e il Consiglio per gli Affari Economici – sono generalmente presenti, anche se hanno bisogno di una maggiore preparazione e di un nuovo impulso per prendere parte attiva alla vita della Chiesa.

Ciò che maggiormente manca alle nostre parrocchie è la spinta missionaria per raggiungere i lontani e i non cristiani. Spesso restiamo ripiegati su noi stessi e facciamo fatica a rivolgerci ai non praticanti e ai non battezzati. In alcune realtà operano i Centri Familiari di Ascolto, che si sforzano di portare il Vangelo nelle case della gente. Spesso, soprattutto nei tempi forti, si propongono iniziative di evangelizzazione e di spiritualità nei quartieri. Solo in pochi casi, e più che altro a opera di alcuni gruppi ecclesiali in alcuni momenti dell’anno, si fa la missione “porta a porta”. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, si tratta di iniziative circoscritte a cui non riusciamo a dare continuità. Soprattutto dobbiamo riconoscere che l’invito alla missione verso gli ammalati, le famiglie e i giovani, proposta dai piani pastorali degli anni scorsi come occasione per avviare relazioni stabili con i più lontani, è restato pressoché disatteso.

Abbiamo avuto anche modo di constatare che la nostra pastorale è legata prevalentemente alla preparazione ai sacramenti, alla celebrazione della liturgia e alle tradizioni della pietà popolare. In questo senso è una “pastorale di autoconservazione”, non sempre e non sufficientemente attenta all’annuncio del Vangelo nelle nuove situazioni della vita contemporanea. Abbiamo bisogno di formazione per crescere in questo senso, perché ci sentiamo impreparati a sostenere le nuove sfide della cultura e della società di oggi, ma sentiamo anche il peso e la difficoltà di questo impegno. Ci rendiamo conto che in questo si gioca la sfida più grande per la Chiesa di oggi e di domani, perché la vita delle nostre parrocchie non può restare quella di sempre mentre l’esistenza degli uomini e delle donne del nostro tempo cambia a vista d’occhio. E tuttavia facciamo fatica a cambiare modo di pensare e di agire.

Stiamo cercando di recepire lo stile dell’iniziazione cristiana sul modello catecumenale, che ormai da anni il Centro per l’Evangelizzazione e la Catechesi ci sta proponendo, ma non è facile. Non è facile innanzitutto modificare le abitudini radicate nella mentalità e nell’azione tradizionale. Il nuovo fa sempre paura e questo vale soprattutto se non si tratta di cambiare il metodo della catechesi ma lo stile della comunità e l’impianto della pastorale. I nuovi itinerari sono senza dubbio affascinanti, ma occorre un’opera paziente di sensibilizzazione e di preparazione, sia per formare gli accompagnatori sia per riuscire a coinvolgere le famiglie e l’intera comunità. C’è da considerare, inoltre, che diverse parrocchie non hanno aderito fin da subito alla proposta diocesana e adesso fanno fatica a rimettersi al passo, mentre altre ancora stentano a comprenderne il valore e vanno aiutate a capirlo.

L’Arcivescovo, Francesco Montenegro, ha risposto con queste parole (vai al video)

IMG_0234 copiaConosco bene le difficoltà della vita parrocchiale, oggi molto più complessa rispetto a un passato in cui la società era quasi inte-ramente cristiana e la gente veniva da noi per completare un percorso già cominciato in famiglia. Conosco gli sforzi di tutti – sacerdoti e diaconi, operatori pastorali, religiosi e religiose, gruppi, associazioni e movimenti – nel condividere l’ansia pastorale e la solleci-tudine verso tutto il popolo di Dio e approfitto di questa occasione per ringraziarvi di quanto quotidianamente fate con generosità e spesso anche con sacrificio: se la nostra Chiesa Agrigentina può vantare una grande tradizione di impegno nelle parrocchie e nell’intero tessuto sociale e se oggi ci ritroviamo qui a riflettere su come rende-re ancora più efficace la nostra presenza nel territorio è perché ci siete voi, nonostante i vostri sforzi spesso vi possano sembrare vani. Conosco anche la sofferenza che talora accompagna questi sforzi, per via delle incomprensioni e degli insuccessi, delle critiche e degli attacchi, spesso anche per via della delusione e della solitudine; vorrei sostenere ciascuno di voi e ripetervi quel “non temere” che accompagna come un ritornello costante tutta la storia della salvezza. Ricordiamoci che il Signore ha promesso una grande ricompensa a quanti lasciano tutto e si mettono a disposizione del Regno di Dio, ma questa ricompensa passa anche attra-verso le persecuzioni, che ci danno modo di crescere nella fede e di testimoniarla.

Se stiamo registrando tanti fallimenti nell’azione pastorale delle nostre parrocchie non ci scoraggiamo: vuol dire che finalmente abbiamo aperto gli occhi su una realtà nuova e che questa realtà ci sta talmente a cuore da non lasciarci tranquilli; anche questo è misericordia.
Proprio in questa tensione verso la realtà del nostro territorio – a cui prima abbiamo già dedicato la nostra attenzione – si definisce l’ideale della “Chiesa in uscita” che Papa Francesco ci sta indicando.

“Chiesa in uscita” significa prima di tutto proiettarsi oltre il mantenimento della fede che ha caratterizzato finora la pastorale ordinaria delle nostre parrocchie, ma questo richiede l’impegno di tutti – e non solo delle persone consacrate o degli operatori pastorali – a diventare annunciatori e testimoni credibili della fede. Ormai abbiamo capito che i luoghi dell’annuncio e della testimonianza cristiana non sono più le nostre parrocchie, ma le strade e le case, i luoghi di lavoro, di ritro-vo e di svago, la vita sociale e culturale, le agenzie educative, le opere assistenziali e umanitarie, le istituzioni e il mondo della politica e dell’economia. Là il Signore ci manda ad annunciare il Vangelo della misericordia e a difendere e promuovere la dignità umana. Perciò non dobbiamo avere paura di aprirci al nuovo e al diverso, anche se questo inizialmente può generare smarrimento e perplessità: a tutti chiedo il coraggio di credere che possiamo cambiare, non tanto strategie ma stile.
Alcune indicazioni concrete:
– Il primo passo da compiere consiste nell’assumere il metodo sinodale che le Chiese Italiane hanno sperimentato al Convegno Ecclesiale di Firenze. Metodo sinodale è innanzitutto disponibilità all’ascolto e al confronto, perché le scelte ecclesiali non siano studiate a tavolino e calate dall’alto, ma pensate e valutate insieme. Già i moduli del Progetto Formativo Unitario abbiamo pensato di svolgerli in questo modo, riservando un ampio spazio ai laboratori per maturare insieme le scelte da compiere entro la fine di quest’anno in vista della prosecuzione del progetto pastorale diocesano. Questo stesso metodo stiamo adottando anche nel Consiglio Pastorale Diocesano e sarebbe opportuno che tutti i Consigli Pastorali riuscissero a ripensare così il proprio ruolo, che non si può risolvere nella semplice programmazione di attività.
– Un altro passaggio fondamentale ci deve portare dalla logica della sacramentalizzazione a quella dell’evangelizzazione. Piuttosto che preoccuparci della preparazione e dell’amministrazione dei sacramenti, ci dobbiamo impegnare seriamente per portare dovunque l’annuncio del Vangelo, a partire dalle famiglie che chiedono il battesimo e gli altri sacramenti dell’iniziazione per i loro figli e dai fidan-zati che chiedono il matrimonio. Ciò vuol dire che non possiamo limitarci ai corsi prebattesimali e prematrimoniali o alle catechesi per i genitori o al coinvol-gimento delle mamme durante l’ora di catechismo, ma approfittare della loro presenza in queste circostanze per creare una relazione stabile e proporre un per-corso capace di coniugarsi con le fasi e gli ambiti della vita. Il Centro per l’Evangelizzazione e la Catechesi, in particolare, sta portando avanti già da diverso tempo la formazione dei formatori, ma purtroppo non riusciamo ancora a lasciarci coinvolgere in questo nuovo modo di fare pastorale: chiedo a tutti di accogliere favorevolmente questo invito e di investire molto in questa forma-zione, perché solo così si può realizzare la “conversione pastorale” che a tutti sta a cuore e che ormai è diventata una necessità di cui non possiamo più fare a meno
Ma la “conversione pastorale” passa principalmente attraverso una scelta coraggiosa sull’iniziazione cristiana per la trasmissione e il risveglio della fede: la riflessione ecclesiale, non solo a livello diocesano ma anche secondo gli orientamenti della Conferenza Episcopale Italiana, ci ha portati al recupero del valore dell’iniziazione e del modello catecumenale. Non si tratta – come giustamente avete messo in risalto e come tante volte abbiamo detto – di un nuovo metodo per la catechesi, ma di una nuova mentalità. L’iniziazione ci ricorda il dovere principale di generare alla fede piuttosto che di prepa-rare ai sacramenti, in un percorso prolun-gato nel tempo, scandito da tappe e da consegne, in cui l’intera comunità eccle-siale e soprattutto le famiglie si devono sentire coinvolte in prima persona, maturandi l’arte dell’accompagnamento. Anche su questo ho affidato al Centro per l’Evangelizzazione e la Catechesi il compito di preparare le nostre parrocchie, ma le risposte che ci attendevamo non sono ancora arrivate. Anch’io – come avete detto prima – mi rendo conto delle difficoltà legate al cambiamento, non solo della prassi ma prima ancora della mentalità, ma non abbiamo al-tre possibilità: le chiese sempre più vuote e il regolare abbandono della fede da parte dei giovani subito dopo la Cresima ci costringono a impegnarci seriamente per rendere più interessante e credibile l’annuncio del Vangelo e la proposta della fede. Chiedo a tutti, allora, di seguire le indicazioni fornite dal Centro per l’ Evangelizzazione e la Catechesi: se finora abbiamo proceduto con molta elasticità, lasciando inalterato anche l’iter per la celebrazione dei sacramenti che completano l’ iniziazione, è stato solo per aspettare che la proposta si facesse strada in tutte le nostre parrocchie, ma è arrivato il momento di una forte decisione ecclesiale a riguardo, che certamente arriverà entro la fine di quest’anno e costituirà uno dei pilastri della successiva programmazione pastorale. Sarà questa scelta ecclesiale, decisa e condivisa, sulla pastorale dell’iniziazione che ci metterà nelle condizioni di dare un nuovo volto alle nostre comunità, permettendoci di incarnare quell’ideale di “Chiesa in uscita” a cui prima facevamo riferimento e su cui torneremo a riflettere nel secondo evento giubilare di settembre, dopo il terzo e il quarto modulo del Progetto Formativo Unitario, per restare fedeli all’impegno di sino-dalità che ci siamo presi e che stiamo por-tando avanti.
Gli elementi positivi che già ci sono. Mentre portiamo avanti il discernimento ecclesiale sulle scelte da compiere per i prossimi anni, puntiamo su tutto il positivo che c’è già nelle nostre parrocchie e che nei labo-ratori del Progetto Formativo è venuto fuori. Una delle espressioni più significative che ci permette di andare fuori dalle nostre chiese e di raggiungere anche i più lontani è senza dubbio l’esercizio della carità, quale espressione di prossimità e solidarietà con chi soffre. Gesù ci ha detto che dall’amore che avremo gli uni per gli altri ci riconosceranno come suoi discepoli, e da sempre la vita delle comunità cristiane è ruotata attorno alla testimonianza della carità. Riguardo a questo so che i centri di ascolto e le Caritas cominciano a farsi sempre più spazio nelle nostre comunità ecclesiali, anche se dobbiamo sforzarci di aiutare i più bisognosi a uscire dalla marginalità, passando dall’assistenzialismo alla capacità di ricostruire il tessuto umano e sociale delle realtà locali. Caritas diocesana sta portando avanti un lavoro prezioso in questo senso, che raccomando a tutti di accogliere e fare proprio. Una grande opportunità per la vita delle nostre parrocchie è poi la presenza delle aggregazioni ecclesiali, gruppi, associazioni, movimenti e nuove comunità sono l’espressione della fantasia dello Spirito, che suggerisce sempre intuizioni profonde nella vita della Chiesa. Vi invito a valorizzare la loro presenza, integrandola armonicamente nella vita delle parrocchie, vigilando nello stesso tempo affinché i gruppi evitino di isolarsi rispetto al resto della comunità e a ripiegarsi in se stessi: teniamo sempre presente che siamo cristiani in quanto apparteniamo alla Chiesa e non a un gruppo piuttosto che a un al-tro o a una parrocchia rispetto che a quella accanto. E poi ci sono le realtà giovanili, confermate con mia piacevole sorpresa anche dai laboratori. Spesso si guarda ai giovani come a un problema, ma sappiamo bene che i giovani sono la grande opportunità per la Chiesa come per il mondo. So che un forte impulso alla pastorale giovanile stanno dando gli incontri di spiritualità a livello zonale, anche se ancora solo una piccola parte dei giovani delle nostre parrocchie vi prende parte. So anche che spesso sono proprio i gruppi giovanili a tenere vive le nostre comunità e a lavorare per l’unità tra le parrocchie e le unità pastorali: forse perché non hanno abitudini da mantenere e consuetudini da difendere o forse semplicemente perché hanno nel cuore la passione che a volte noi meno giovani perdiamo facilmente.
Coraggio, quindi: rinnoviamo l’entusiasmo che i nostri giovani ci contagiano e andiamo avanti con fiducia e speranza.

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Il progetto missionario di cooperazione con la Chiesa di Albania

Il terzo ed ultimo agomento della riflessione dialogica è stato così introdotto dal vicario per la pastorale, don Giuseppe Agrò.

Il cammino della Chiesa Agrigentina, che abbiamo appena cercato di rileggere e rilanciare, si intreccia con il discernimento su una nuova cooperazione missionaria. Dopo diversi passaggi siamo arrivati a un progetto di avvicinamento con l’Amministrazione Apostolica del Sud Albania che adesso alcuni fratelli ci presenteranno. Invito a raggiungerci, pertanto, suor Mariateresa Traina che dirige il Centro per la Missione, don Giuseppe Cumbo in rappresentanza dei membri del Laboratorio diocesano per la missione ad gentes e Laura Pezzino che ha compiuto un’esperienza prolungata di missione in Albania.

Suor Mariateresa Traina (vai al video):

Nel dicembre 2012 la nostra Chiesa Agrigentina ha concluso l’esperienza di cooperazione missionaria con la Diocesi di Iringa in Tanzania, durata circa 40 anni, con la riconsegna al clero locale della Parrocchia di Ismani.

Fin dall’inizio del 2013 abbiamo quindi cominciato a chiederci: ma la nostra Chiesa può continuare a cooperare con altre Chiese sorelle e a essere impegnata nell’evangelizzazione con una sollecitudine missionaria che abbraccia ogni uomo e donna del mondo?; e quali ricadute positive può avere una cooperazione missionaria sulla pastorale ordinaria della nostra Chiesa locale?

È iniziato, quindi, un periodo di discernimento comunitario che ha interessato sia i presbiteri che i laici attraverso delle assemblee zonali realizzate durante la Quaresima 2013. L’obiettivo era coinvolgere tutti per vivere un’esperienza di Chiesa che insieme valuta, sceglie e assume con responsabilità il suo futuro. La missione, infatti, non riguarda solo il Vescovo o qualche missionario – presbitero o laico – che sceglie di partire, ma impegna ognuno di noi che con il battesimo è chiamato a condividere la fede annunciando il Vangelo a ogni persona e nel mondo intero.

Dalle varie assemblee è emersa con forza la necessità di continuare l’esperienza missionaria e si è avvertito il desiderio di essere tutti coinvolti in questa scelta.

Ci siamo quindi messi in ascolto di questo desiderio di aprirci a un nuovo rapporto di cooperazione con Chiese sorelle, e prendendo in considerazione diversi inviti di cooperazione pervenuti al nostro Vescovo da Tunisia, Congo, Messico, Tchad e Albania, abbiamo costituito un Laboratorio diocesano con persone sensibili alla missionarietà, che avrebbero potuto dare un contributo nel discernimento.

Nell’estate 2013 alcuni membri del Laboratorio, insieme ad altri fratelli, si sono recati in visita in Albania, Tchad, Messico e Tunisia. Al ritorno, dopo l’ascolto attento delle relazioni riportate e delle esperienze positive di un gruppo di seminaristi che hanno vissuto un’esperienza breve a Bilisht in Albania nell’estate e nel periodo natalizio del 2014, il Laboratorio ha coinvolto altre persone perché il discernimento fosse più partecipativo.

Negli incontri che si sono susseguiti poco a poco ci siamo soffermati in modo particolare sull’Albania, che sembrava interpellarci maggiormente, e abbiamo pensato di proporre alla Diocesi di accogliere la richiesta rivoltaci dall’Amministrazione Apostolica del sud per il comprensorio di Bilisht, che comprende la Città di Korce e altri 45 villaggi.

In questa zona molto povera dell’Albania, non ancora strutturata come diocesi, la Chiesa è tutta da costruire. Essa si presenta come una Chiesa nascente, insignificante nei numeri ma desiderosa di crescere, povera di mezzi ma ricca di sfide. Riteniamo che l’Albania sia Terra di Missione che richiede un particolare impegno nell’annuncio del Vangelo e nell’accompagnamento in una crescita umana e spirituale per questo popolo che ancora fatica a riprendersi dai cinquant’anni di dittatura di un regime comunista che ha cercato di cancellare i valori spirituali e umani oltre che di “annientare” la persona. La nostra Diocesi, accogliendo la sfida di questa missione, ricomincerà un cammino di crescita nello spirito missionario e nel sentirsi Chiesa in uscita al servizio del Regno di Dio.

La scelta di cooperare con la Chiesa del sud Albania, inoltre, avrebbe per la nostra Chiesa delle ricadute positive sulla vita pastorale. In primo luogo la riscoperta della capacità di annunciare il Vangelo in modo semplice, sobrio e immediato, imparando un nuovo stile di testimonianza e di prima evangelizzazione come quello delle prime comunità cristiane descritte negli Atti degli Apostoli. Tutto questo in piena sintonia con la scelta diocesana di avviare la pastorale di iniziazione cristiana secondo il modello catecumenale, che nel Sud Albania, senza saperlo, è già una realtà. Inoltre, riteniamo che una nostra presenza in questa zona dell’Albania può aiutarci a crescere sul piano del dialogo interreligioso e dell’ecumenismo.

Don Giuseppe Cumbo (vai al video):

Nell’estate 2015, in seguito a un’esperienza breve a Bilisht con seminaristi, famiglie e giovani, Don Franco ci ha invitati a stilare un progetto di conoscenza, servizio e collaborazione per un graduale avvicinamento con questa Chiesa nel Sud dell’Albania.

Tale progetto consiste in esperienze brevi di presenza e di servizio in Albania e prevede il coinvolgimento dei diversi soggetti ecclesiali della nostra diocesi – presbiteri, operatori pastorali, diaconi, religiosi e religiose, famiglie e giovani – che desiderino fare una breve esperienza di conoscenza e servizio per discernere la propria vocazione missionaria ad gentes.

Il progetto è pensato in modo da favorire una conoscenza reciproca in vista di una scelta definitiva di cooperazione. Ha già preso inizio a Natale 2015 con la presenza di presbiteri, seminaristi e una laica, che si sono susseguiti per un periodo di circa un mese e mezzo a Bilisht, accolti e accompagnati dalle Sorelle Francescane del Vangelo. Ci si è posti in ascolto e a servizio di questa comunità cristiana nascente, in modo particolare nella celebrazione delle festività natalizie e in attività di animazione giovanile e di presenza nelle famiglie.

Il progetto prevede altre tappe, che abbiamo sintetizzato nella slide che conclude il book fotografico che intanto state ammirando sul maxischermo e sulla quale ci soffermeremo in conclusione.

Il nostro auspicio è che la conoscenza e la partecipazione a tale progetto possano far riscoprire la vocazione missionaria propria di tutti i cristiani e di ogni attore della vita ecclesiale. Ci auguriamo che come Chiesa possiamo arrivare a una scelta definitiva e che molti di noi – presbiteri e diaconi, laici e religiosi, famiglie e giovani – abbiano il coraggio di offrire alcuni anni di servizio a questa Chiesa per rispondere al mandato di Cristo che ci invia a tutte le genti e con lei crescere nella fede e nella comunione per sentirci tutti parte del Regno di Dio!

 

IMG_0154 copiaLaura Pezzino (vai al video):

Dal 27 gennaio al 20 febbraio scorsi ho avuto la possibilità di vivere per la seconda volta un periodo di servizio a Bilisht, nel sud est dell’Albania.

Sono stata ospitata dalle Sorelle Francescane del Vangelo che svolgono lì il loro servizio da vent’anni, affiancandole nell’attività che quotidianamente svolgono accanto alla gente e alle famiglie vicine e lontane, credenti e non, cristiane e musulmane. C’ero già stata l’estate scorsa in gruppo, ma questa volta ho avuto la possibilità di conoscere maggiormente la realtà di Bilisht e dintorni.

Ho potuto apprezzare lo stile semplice di prossimità che le Sorelle del Vangelo adottano, attente innanzitutto a intessere relazioni significative e autentiche, alla promozione della dignità di ciascuno, attente insomma prima di tutto alla Persona.

Ho sperimentato come vive la piccola comunità cristiana di Bilisht che, pur soffrendo per l’assenza di un Presbitero, si impegna a vivere in pienezza la sua vita pastorale. Ho riscoperto la bellezza e la pienezza della dignità dei laici. Per me è stata un’esperienza particolare quella della liturgia del Mercoledì delle Ceneri, in cui una ragazza ha proclamato il Vangelo e una delle Suore ha imposto le ceneri e distribuito l’Eucarestia consacrata dall’ultimo sacerdote passato da Bilisht. È stato inusuale per me ascoltare durante la Liturgia della Parola le omelie tenute dalle Sorelle Francescane e capire che noi laici possiamo e dobbiamo dare di più alla Chiesa, anche per dare l’opportunità ai Sacerdoti di svolgere al meglio il loro Ministero. Credo che questo sia un insegnamento grande che la Chiesa nascente del Sud Albania può offrirci e mi auguro che noi sappiamo farci attenti.

Ho vissuto il confronto con chi ha sentito parlare di Gesù per la prima volta solo in età adulta (l’Albania negli anni ’90 è venuta fuori da più di 40 anni di feroce dittatura che ha annientato ogni sentimento religioso) e che adesso si appresta a ricevere il Battesimo, e mi sono trovata a ringraziare il Signore per una grazia immensa che non avevo mai considerato: conoscerLo da sempre!

Ho vissuto anche delle difficoltà che in gruppo non emergono: stavolta mi sono sentita straniera!Incapace di comunicare, di muovermi da sola, mi sono sentita spesso osservata e considerata strana e diversa per lingua, mentalità, cultura, modo di fare e di pensare, per credo religioso, ma nonostante questo, nonostante le differenze, mi sono sentita profondamente accolta. Per il popolo albanese l’ospite è sacro, e l’ospitalità affettuosa e sincera che ho ricevuto è uno dei più bei ricordi che porto con me e un insegnamento da custodire, perché ero straniera e sono stata accolta!

Considero il periodo vissuto a Bilisht come un tempo di Grazia, di riscoperta del mio Battesimo, che mi dà l’opportunità di interrogarmi sul mio ruolo di laica nella Chiesa, su come intenderlo e svolgerlo. E di questo ringrazio il Signore!

Il Vescovo ha concluso la riflessione la riflessione dialogica ringraziando i membri del Laboratorio diocesano per la missione e invitando tutti a recepire, diffondere e attuare il progetto missionario, come ulteriore stimolo per rilanciare e ripensare la vita delle comunità locali.

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La celebrazione Eucaristica (vai al video)

Il Giubileo della diocesi si è concluso con la concelebrazione eucaristica presieduta dal cardinale Montenegro e concelebrata da tutti i presbiteri. L’Arcivescovo commentando la parabola del Padre misericordioso ha pronunciato questa omelia (vai al video):

La Sacra Scrittura, quando parla di Dio e dell’uomo, non dà mai definizioni, ma racconta fatti e avvenimenti che, scavando nella coscienza di chi li compie o li subisce, arrivano là dove neppure le definizioni più acute riescono ad arrivare. Questo vale soprattutto per la misericordia, che è l’essenza stessa di Dio, il suo modo di essere e di agire.

E per questo nostro Giubileo Diocesano non poteva esserci una Parola più appropriata di quella appena ascoltata: Luca con la storia del padre e dei suoi due figli racconta il cuore di Dio e il dramma dell’esistenza dell’uomo. La storia dell’ingresso di Israele nella terra promessa (prima lettura) racconta la tenerezza e la pazienza di Dio che conduce il suo popolo verso la libertà e la felicità, nonostante le molte infedeltà e ribellioni.

Nell’uno e nell’altro caso è descritto il dramma di un amore: l’ amore misericordioso di Dio, che condivide il cammino dell’ uomo, nei suoi continui sbalzi di umore, in mezzo al deserto del mondo, e lo attende quando si stanca di vagare in questo deserto senza meta e senza speranza. Nell’uno e nell’altro caso c’è il ritorno: il ritorno di Israele all’alleanza, tradita ma sempre rinnovata, e il ritorno a casa del figlio, fuggito ma sempre atteso. I due racconti si concludono con la gioia di una festa: la pasqua, che celebra il compiersi delle promesse fatte ai padri, e il banchetto, che celebra il ritrovamento del figlio perduto.

La misericordia è questo: un amore, un ritorno e una festa. E questa nostra assemblea oggi ne è l’espressione più bella: abbiamo riletto il cammino della nostra Chiesa, cercando di individuarvi i segni dell’amore di Dio verso di noi e quelli dell’amore che noi dobbiamo alle nostre comunità e al nostro territorio; abbiamo abbozzato i passi da compiere per ritornare al Signore e per accompagnare il ritorno di chi abbiamo lasciato lontano o di chi non abbiamo mai raggiunto; e ora, celebrando la gioia di stare insieme, attorno alla mensa che ci rende figli e fratelli, gustiamo la festa della salvezza per portarne il sapore nella vita di ogni giorno.

a) Misericordia come amore

Sappiamo che amare non è facile, perché – come diceva don Tonino Bello – «amare, voce del verbo morire, significa decentrarsi; uscire da sé; dare senza chiedere; essere discreti al limite del silenzio; soffrire per far cadere le squame dell’egoismo; […] desiderare la felicità dell’altro; rispettare il suo destino; e scomparire, quando ci si accorge di turbare la sua missione».1

Nella parabola del padre misericordioso c’è tutto questo e da essa impariamo sia quale deve essere lo stile della nostra vita, personale e comunitaria, sia quale deve essere il nostro impegno verso il territorio e le attenzioni da avere verso quanti lo abitano, vicini e lontani, amici e nemici, giusti e disonesti. Il padre della parabola si de-centra rinunciando alla sua identità di padre di fronte al figlio che, chiedendogli l’eredità, lo considera morto. Esce da sé quando lo lascia partire senza tentare di fermarlo. Dà senza chiedere quando gli permette di perdere tutto senza richiedere il risarcimento dei danni. È discreto al limite del silenzio quando resta ad aspettarlo senza rimproverargli le trasgressioni e senza rivendicare il rispetto. Soffre perché gli cadano le squame dell’egoismo quando lo lascia sbagliare perché impari dagli errori. Desidera la sua felicità quando spera che le lezioni della vita lo riportino in se stesso. Rispetta il suo destino quando accetta anche il rischio di non rivederlo più. Scompare quando si mette da parte, rinunciando ad averlo come figlio ma senza rinunciare a restargli padre.

Accettando le proposte della parabola e pensando alle nostre comunità desideriamo che in noi cresca sempre di più il tratto della misericordia per essere “misericordiosi come il Padre”.

La conversione –richiestaci in questo Giubileo e in questa Quaresima – non è tanto quella di cambiare il nostro agire, ma il nostro modo di intendere Dio per riuscire a essere misericordiosi come Lui. Convertirsi non significa acquisire dei meriti, ma scoprire e stupirci per la misericordia del Padre che si rivela nel volto di Gesù. È chiedere perdono, ma anche riconoscersi figli e fratelli.

Tante volte vi ho detto che non è questione di inventare nuove strategie, ma di cambiare il cuore, di purificare i sentimenti, di rinnovare le intenzioni, di ritrovare le motivazioni. Sentiamoci tutti – ministri, famiglie religiose, laici – una grandissima ricchezza per il nostro territorio e per le nostre parrocchie. Ma se non ci convinciamo che il centro di tutto non siamo noi ma l’altro, restiamo sterili. Se spegneremo i risentimenti, perdoneremo le offese, risaneremo le ferite, ricomporremo le fratture, accantoneremo i pregiudizi, la nostra testimonianza e il nostro impegno porteranno frutti.

Proprio perché vediamo le chiese svuotarsi, i giovani allontanarsi, le famiglie isolarsi, i lontani aumentare, i fatti della storia vicina e lontana sempre più complicati, dobbiamo tornare a confrontarci con quell’amore disposto a morire pur di far vivere l’altro.

Non si tratta solo di scoprire quanto non ha funzionato nella nostra programmazione, ma di chiederci se veramente ci siamo lasciati raggiungere e trasformare dal Signore, così che ogni programma pastorale e ogni azione ecclesiale lo confrontiamo con l’unica regola dell’amore, che è quella di abbassarsi per lavare i piedi dell’altro: «vi ho dato infatti un esempio – ci dice Gesù – perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15).

In questo tempo Giubilare e che ci prepara alla Pasqua sentiamo l’invito a vivere lo stesso amore incondizionato con cui Gesù «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Gv 13,1). Sentiamolo forte l’invito ad aprirci al mondo, che ha le dimensioni di tutta la terra e le coordinate concrete del nostro territorio. Confrontiamoci con i suoi bisogni e i suoi ritardi. Chiediamoci se e quanto sappiamo riconoscere come “nostri” – così come Gesù ha saputo riconoscere “suoi” – coloro che sono nel mondo, al di là di ogni giudizio e di ogni pregiudizio, con lo stesso amore sincero con cui Dio «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45). E chiediamoci pure fin dove riusciamo a spingerci nella sfida di quel “fino alla fine” che è la misura della misericordia di Dio e che è il termine dell’amore con cui dobbiamo amarci gli uni gli altri.

b) Misericordia come ritorno

Se amare è difficile, lo è anche ritornare. Ritornare sui propri passi significa sapersi confrontare con gli altri e con se stessi. Ma ritornare è anche il verbo della nostalgia, che è la condizione per affrontare la vita e continuare il cammino. È la nostalgia di chi allontanatosi da casa per ragioni di lavoro o di studio vuole ritornare dai suoi. O chi per scontare una pena o per sfuggire alla miseria e alla guerra sogna di ritornare ai suoi affetti e alle sue cose. Gli innamorati ritornano, almeno con il pensiero, ai momenti del primo amore e nei posti delle prime carezze.

Anche Dio, quando vuole ri-chiamare il suo popolo, lo riporta nel deserto, nel luogo del fidanzamento e al tempo dell’alleanza, non per rimproverarlo, ma per fargli gustare nuovamente i «giorni della sua giovinezza» (Os 2,17). Il cammino di Israele nel deserto, come il vagabondaggio del figlio piccolo della parabola, sono tappe obbligatorie per conoscere e ri-conoscere Colui che ci vuole condurre e coloro verso i quali ci vuole portare. Ognuno di noi è figlio, più o meno “prodigo”, e tutti insieme siamo popolo, più o meno fedele. Dio anche a noi chiede di essere sempre in atteggiamento di “uscita”, di accettare la sfida dell’esodo e dell’esilio, perché solo attraverso questa via possiamo “ritornare in noi stessi” e ritrovare Lui e i fratelli.

I due figli, facendosi un’immagine distorta del padre, hanno smarrito la propria identità e perso la relazione tra loro. Nessuno dei due riesce a riconoscersi figlio perché nessuno dei due ha conosciuto realmente il padre. Ma almeno il piccolo, allontanandosi e sbagliando, ha avuto la possibilità di ritornare e di apprendere la lezione della misericordia nella corsa e nell’abbraccio del padre. Il grande, invece, pensando che bastasse restare, è rimasto vittima di se stesso e neppure il padre con la sua preghiera è riuscito a smuoverlo. Non sappiamo come la storia sia andata a finire. Forse perché sta a noi decidere. A noi che a volte siamo come il figlio piccolo ma capriccioso e a volte come il figlio grande con i paraocchi. Più volte ci siamo detti che essere “vicini” o “lontani” rispetto alla fede e alla vita delle nostre parrocchie è solo una questione di prospettive. Oggi vorrei aggiungere che essere “vicini” non è una sicurezza, così come stare “lontani” non è un rischio. A tutti il Signore chiede di essere misericordiosi come Lui, capaci cioè di amore eroico, di ritorno autentico e di festa sincera.

Viviamo questo tempo giubilare serenamente e sinceramente come il tempo fecondo dell’esilio, in cui Dio rinnova l’alleanza con noi. Restiamo inquieti fino a quando la distanza tra noi e Lui e tra noi e i fratelli non sarà colmata.

c) Misericordia come festa

Solo così la festa della misericordia potrà essere piena. L’amore che ritorna è sempre fonte di riconciliazione, come ci ha ricordato la seconda lettura. Riconciliazione: sia questa la parola d’ordine di questo Giubileo, di questa Quaresima e della “conversione pastorale” che è richiesta alle nostre comunità. E cosa vuol dire riconciliare, se non mettere nuovamente insieme?

Guardiamoci con simpatia, non temiamo se dobbiamo mettere in moto la fantasia della carità e inventare nuove linee pastorali che superano i confini delle parrocchie, non lasciamoci turbare se Dio ci spalanca le frontiere della missione nel territorio e fino ai confini della terra. Sono le cose nuove che stanno nascendo, ma ci saranno nella misura in cui lasciamo passare quelle vecchie. Dove passare non significa annullare o cancellare ciò che già c’è, ma fare in modo che ciò che c’è non si inaridisca restando così com’è, ma si realizzi sviluppandosi secondo le regole che la misericordia del Padre ci insegna.

Maria, donna di speranza, ci sostenga, ci guidi e ci aiuti.

 

Galleria Fotografica

Immagini di Calogero Cassaro, Marilisa Della Monica e Carmelo Petrone