Prolusione Anno Accademico Studio Teologico, “Europa, Mediterraneo e popoli in cammino”

Si è tenuto venerdì 20 novembre, nella sala “Chiaramontana” del Seminario Arcivescovile di Agrigento l’Inaugurazione dell’Anno Accademico 2015/2016 dello Studio Teologico “San Gregorio Agrigentino”, affiliato alla Pontificia Facoltà Teologica di Sicilia “San Giovanni Evangelista” di Palermo. Dopo i saluti del Prefetto degli Studi, prof. Vincenzo Cuffaro, Giulio Albanese, missionario e giornalista, ha tenuto Lectio Magistralis sul tema: “Terra promessa. Europa, Mediterraneo e popoli in cammino”. A seguire sono stati consegnati i gradi accademici agli alunni che hanno concluso il percorso di studi.

Pubblichiamo il testo il tegrale della lectio di padre Giulio Albanese.

“Terra promessa. Europa, Mediterraneo e popoli in cammino”

“Viviamo in un’età planetaria – scriveva il compianto teologo Ernesto Balducci negli anni ‘70 – con una coscienza neolitica”. La verità è che mai come oggi occorre contra stare il “pensiero debole” rispetto alla soluzione dei problemi che riguardano le relazioni tra Nord e Sud del mondo, tra Paesi ricchi e Paesi poveri. La sfida ha innanzitutto e soprattutto una valenza  fortemente culturale ed educativa, prim’ancora che essere legata a questioni sociali, politiche o economiche. È per questo motivo che trovo davvero opportuna questa condivisione, qui ad Agrigento, in occasione dell’inizio del nuovo anno accademico dello Studio Teologico “San Gregorio Agrigentino”. D’altronde la nostra fede ci interpella, non foss’altro perché siamo insieme un “popolo in cammino” verso la “Terra Promessa”. Per una chiesa come la nostra, con oltre venti secoli di Storia e tanta venerazione, è necessario,  oggi più che mai,  interrogarsi sui segni dei tempi – utilizzando il gergo di papa Francesco – nelle periferie geografiche ed esistenziali del nostro tempo. In entrambe  si verificano fatti, accadimenti, fenomeni che non dovrebbero essere sottovalutati, quali appunto la globalizzazione con i suoi traguardi e le sue recessioni, per non parlare delle migrazioni o dell’avvento dei fondamentalismi. A dire il vero, anche i suoi predecessori, a partire dal Concilio,  avevano tentato di indicare questa ermeneutica del tempo, ma essa non aveva poi trovato attuazione nella pastorale ordinaria di molte chiese particolari. Lungi da ogni retorica, vi è un bisogno impellente di promuovere questa “scrutatio”, pregando, mettendosi in discussione, stando in periferia, lungo la frontiera, perché Gesù Cristo, duemila anni fa, non è venuto per chiamare i giusti, “ma i peccatori perché si convertano e vivano” (Lc.5,32) .

Prolusione, Anno-Accademico 2015 dello Studio Teologico San Gregorio Agrigentino  (foto Petrone)
Prolusione, Anno-Accademico 2015 dello Studio Teologico San Gregorio Agrigentino (foto Petrone)

Ma cosa sta avvenendo sul palcoscenico della Storia? Trent’anni fa, l’intellettuale francese Raymond Aron s’interrogava con inquietudine e preoccupazione sugli effetti perversi della globalizzazione nascente, affermando: “L’ineguaglianza tra le nazioni assumerà il ruolo della lotta di classe”. Oggi la visione profetica di Aron sembra avverarsi. Seguendo diverse direttrici, le nazioni povere si riversano in Europa, l’unico continente relativamente vicino in cui pace e stabilità si coniugano con indici di ricchezza, sviluppo e qualità della vita ancora invidiabili (nonostante la crisi dei mercati) per il resto del mondo.
Proviamo, allora, a ripercorrere, storicamente, per quanto concerne il bacino del Mediterraneo, la genesi di questo fenomeno. Negli anni Settanta la crisi petrolifera prima, la rivoluzione iraniana e poi l’invasione dell’Afghanistan da parte dell’ex Unione Sovietica mutarono l’intero quadro strategico del Mediterraneo che divenne gradualmente la retrovia di una ben più vasta area di instabilità, comprendente tutto il Medio Oriente, il Golfo Persico e il Mar Rosso, con un complesso intreccio dei problemi derivanti dal confronto Nord/Sud. Dopo l’11 settembre questo fenomeno si è acuito e dunque il Mediterraneo si è trasformato nel penoso bacino di scolo dei tanti conflitti che interessano fronti geograficamente lontani. Non solo in Medio Oriente – la questione siriana, irachena e quella palestinese sono sotto gli occhi di tutti – ma anche sull’area balcanica, e soprattutto l’Africa. E poi è arrivata la primavera araba… Ecco che allora abbiamo avuto tutti la sensazione che il mondo potesse cambiare, che anche i più retrogradi tra i regimi potessero essere rovesciati, che Internet avrebbe rivoluzionato per sempre la storia dell’umanità, mantenendo la promessa che aveva fatto. La Primavera araba ha attraversato i Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa, per quella che resta forse la più vergine e pura delle rivolte popolari dell’epoca contemporanea, anche se poi ha subito un graduale e a tratti brusco raffreddamento. Un fervore acceso dal desiderio di democrazia, dalla sensazione di poter recitare il proprio ruolo nella costruzione di una nuova nazione. Un movimento che ha, in molti casi, affrontato anche la restaurazione degli antichi regimi. Ma questa Primavera oggi è sfiorita? Indubbiamente, la sponda sud del Mediterraneo continua a rappresentare una delle aree più politicamente instabili a livello globale. La stagione del cambiamento politico, iniziata nel 2010 con le proteste in Tunisia, ha modificato in modo radicale il profilo della regione, innescando processi di democratizzazione tuttora incompiuti e dalle dinamiche non omogenee. In tutti i paesi interessati dal cambiamento politico (a parte la Tunisia), le profonde trasformazioni sono state accompagnate da un abbassamento del controllo istituzionale sui processi sociali ed economici che si riflette, fra l’altro, sui movimenti migratori regionali. Ecco che allora proprio perché l’esito della fase di transizione politica di questi Paesi è ancora incerto – nel senso che si avverte un forte deficit di politiche sociali ed economiche adatte a risolvere problemi come la disoccupazione giovanile e femminile, le disuguaglianze tra aree geografiche – sono necessarie politiche economiche e sociali più inclusive: non c’è democrazia economica senza inclusione. Di fronte ai processi di transizione democratica in corso nei Paesi della Primavera Araba i governi europei avrebbero dovuto favorire in questi Paesi una “democratizzazione inclusiva”, cioè che includesse non solo i governi ma anche i vari attori della società civile, giovani, donne e parti sociali. Ciò purtroppo non è avvenuto, o è avvenuto solo in parte.
IMG_0407È del tutto normale che persone in crisi nei propri Paesi, sia per guerre che per povertà, si affannino alla ricerca di una vita migliore, correndo anche spaventosi pericoli pur di darsi una chance di riuscita e migliorare le proprie condizioni di vita appiattite sulla sopravvivenza. Tuttavia è importante anche sottolineare quanto la globalizzazione –intesa come la diffusione di standard e modelli consumistici occidentali – non faccia che acutizzare la sensazione di destituzione e impotenza a cui molte persone sono costrette nei propri Paesi, spingendole a tracciare un ingiusto e sempre perdente paragone tra le proprie condizioni di vita e quelle vigenti negli Stati più ricchi. Se è ovvio che nel caso della Siria, della Libia, sia giusto definire il flusso migratorio come prodotto di una congiuntura politica parzialmente imprevedibile, mentre nel caso della Somalia e dell’Eritrea vi sono crisi irrisolte e dunque cronicizzate, la mobilità umana da Paesi come Bangladesh, India, Sri Lanka, Ghana, Costa d’Avorio, Guinea, Marocco…  non ha origine in una contingenza legata alla guerra, ma ad una condizione strutturale di diseguaglianza nel mondo. Un dato forse sorprendente è, infatti, che una parte degli immigrati in fuga non provenga dai Paesi più poveri, ma da quelli che si collocano al di sopra della soglia di povertà, ma senza aver raggiunto standard di vita considerati “globalmente” soddisfacenti. Tra questi, ad esempio, l’Algeria e la Tunisia e il Marocco, che si collocano tutti in una fascia medio-alta di Hdi (Indice di sviluppo umano). Ovviamente, tale indicatore stilato dall’Undp non concorre a spiegare la distribuzione interna della ricchezza ed è per questo che le stesse Nazioni Unite si sono convinte di una sua correzione, elaborando nel 2011 un nuovo indice di sviluppo umano, che tiene conto delle disuguaglianze interne ai Paesi (Ihdi). Tuttavia, il dato da solo basta ad evidenziare che la migrazione non avvenga solo per congiunture imprevedibili come guerre, disastri ambientali o fame, ma anche per gli effetti di lungo termine della globalizzazione – i cosiddetti “migranti economici”-, come ben aveva previsto Raymond Aron.
La risposta europea a questo fenomeno strutturale si presenta doppiamente inadeguata, e questo per due ragioni:
a.    la prima è che intende rispondere all’immigrazione di massa come ad un’emergenza umanitaria, affrontando così – e solo parzialmente – il flusso migratorio prodotto dal collasso di Stati e dalle guerre, trascurando del tutto quello generato dalla  “questione sociale” delle migrazioni come inevitabile corollario della globalizzazione, in riferimento soprattutto a quei Paesi che non attraversano nessuna crisi particolare, ma che godono di un minore grado di prosperità e democrazia.

b.    la seconda è che non si sofferma sulle giustificazioni morali della migrazione – l’immaginario dei migranti, ma anche la loro percezione dell’Europa – che sono altrettanto importanti delle cause economiche, politiche e sociali. L’Europa ha scelto deliberatamente di ignorare il fatto che molti immigrati ritengano di avere il diritto di immigrare in Europa, sebbene tale convinzione non si radichi affatto in un diritto costituito e legalmente ancorato ad un articolo o principio di diritto internazionale. La loro convinzione si origina nell’onda lunga del colonialismo, di cui l’Unione Europea non si considera erede – in quanto non esistente, nemmeno come Cee, prima del 1957 – ma che è percepita da molti migranti (e dai loro capi di Stato) come il governo di un continente che ha ancora un debito aperto con i Paesi ex colonizzati. Una convinzione che trova la sua sintesi nella dichiarazione del dittatore gambiano Yahya Jammeh: “Per compensare lo sfruttamento del nostro Paese da parte dell’Inghilterra, i nostri giovani avranno il diritto di soggiornare in Gran Bretagna per almeno 359 anni”.

Se non si scioglieranno questi due nodi, il cammino continuerà ad essere tutto in salita.

È chiaro che il Mediterraneo non può venire considerato unicamente una questione di sicurezza e una regione di frontiera. Un simile approccio è miope, perché non tiene conto dei processi umani sociali e storici in corso nello spazio euromediterraneo, ed è inefficace, perché non affronta le varie questioni pendenti alla radice. All’interno dell’Unione, dobbiamo riflettere su nuove soluzioni, più positive, per quanto riguarda il fenomeno dell’immigrazione; legare la questione dell’immigrazione e dell’interculturalità ai valori fondanti della cittadinanza europea, agire nel mondo del lavoro, nelle scuole, e attraverso un’azione più positiva dei media.
Cosa proporre, allora, come Chiesa di fronte al fenomeno migratorio e soprattutto in termini generali, all’affermarsi di una cultura esclusiva e non inclusiva? Sappiamo che la Chiesa Italiana sta già facendo molto attraverso Caritas, Migrantes e Missio. Ma sicuramente è possibile spingersi oltre, soprattutto per quanto concerne l’animazione del popolo di Dio. Ecco, dunque, alcune proposte.
a.    Anzitutto è necessaria tanta, ma tanta informazione. Mai come oggi è necessario aiutare la nostra gente a comprendere cosa sta avvenendo nei cinque continenti, andando al di là dei luoghi comuni. Il contenuto semantico di “in – formare” significa letteralmente “dare forma”, “plasmare, modellare secondo una determinata forma”. Da rilevare che il prefisso “in” ha un’accezione accrescitiva anziché negativa (come ad esempio nel caso di “in – formale” o “in – forme”). Viene allora spontaneo chiedersi in che senso l’informazione missionaria possa dare forma alla realtà internazionale, unitamente alla vita delle Chiese. La risposta è che informando si dà ordine alle notizie, sia nel senso stretto di eliminazione del disordine, sia in quello più ampio di ricerca della verità e riduzione della complessità determinata da un alto indice di notizie, attraverso un sano discernimento sulle fonti. Pur vivendo immersi in una cultura globalizzata, paradossalmente, sappiamo poco o niente di quello che succede nel mondo. Purtroppo, la mercificazione a cui è sottoposto l’intero comparto massmediale, il clientelismo imposto da alcuni potentati del sistema informativo, nonché l’emissione affannosa di notizie resa necessaria dalle regole della comunicazione in tempo reale, rappresentano un forte limite nel raccontare i fatti e gli accadimenti su scala planetaria, in particolare quelli che si verificano nelle tante periferie. Emblematici sono i casi della guerra in atto nella Repubblica Centrafricana o della feroce tirannia che da anni, ormai, insanguina l’Eritrea, per non parlare della crisi somala. Fenomeni, questi, che generano l’esodo di milioni di persone, ma quasi mai raccontati dalla grande stampa. Col risultato che quando si verificano gli sbarchi di profughi sulle coste del Bel Paese ci si sofferma solo sulla cronaca immediata senza spiegare le vere ragioni della mobilità umana. In effetti, il giornalismo, particolarmente in Italia, è malato e la prognosi riservata: siamo al capezzale di un paziente che versa in gravi condizioni, per così dire, in sala di rianimazione. Di tutte le mistificazioni sul suo stato di salute, indubbiamente la più eclatante è quella di presentarsi spesso con la maschera dell’innovazione, e talvolta del progressismo, ma ispirandosi il più delle volte a una sorta di populismo oscurantista. Troppe volte capita allo sventurato utente massmediale di assistere a una semplificazione casereccia delle notizie, che degenera in una sorta di banalizzazione estrema. Ecco che allora certi telegiornali diventano a prova di conoscenza e assistiamo a incessanti messe in scena di situazioni proditorie, senza capo né coda: tanto ciò che conta è fare audience! Emblematico è il caso di padre Paolo Dall’Oglio, sequestrato in Siria oltre due anni fa. Ogni tanto qualcuno dice la sua, scrivendo che ancora vivo, altri l’esatto contrario, citando improbabili fonti internettiane del mondo arabo. In questo modo, non solo si acuisce la confusione e il patimento dei familiari che sperano di riabbracciarlo, ma si genera un flusso di notizie controproducente ai fini delle trattative per la sua liberazione. Un altro esempio? Si intervistano i parenti delle vittime chiedendo loro come si sentono; domande che meriterebbero la radiazione dall’ordine dei giornalisti. Per non parlare di quando qualche mente, certo non illuminata, ha l’ardire di aprire il notiziario con le previsioni del tempo e il calciomercato. Se poi, per causa di forza maggiore, i temi sono di respiro internazionale, i casi sono due: o vengono radicalmente ignorati o, nella migliore delle ipotesi, ridotti ai soliti stereotipi stile Western dove fin dalle prime battute si sa chi sono i buoni (i cowboy) e i cattivi (gli indiani). Nel frattempo, i vari conduttori di turno sopravvivono con i quattrini elargiti nei quiz televisivi a raffiche di domande da scuola guida. Poco importa che si tratti del Grande Fratello, delle fiction a prova di congiuntivo … tutto è omologato secondo logiche commerciali che fanno moda e tendenza. Lungi da ogni forma di disfattismo, sappiamo che in molte redazioni vi sono bravissimi colleghi che credono nella libertà di stampa, dimostrando una passione smisurata per questo mestiere, anche se poi devono fare sempre i conti con editori che vantano proprietà immobiliari o commerciano surgelati. Sbaglia, però, chi vede nei piani editoriali una scelta dichiarata del provvisorio o del contingente. Anzi, questo modo di comunicare è fatto apposta per essere durevole: ciò che conta è narcotizzare il cervello della gente perché risponda al diktat dell’interesse. Si preferisce, allora, il varietà soporifero e obnubilante ad ogni iniziativa giornalistica autentica. Sta di fatto che le guerre del Sud del mondo rimangono dimenticate, per non dire censurate, che ignoriamo il cinema africano e tanti fatti di attualità che potrebbero aiutarci ad essere meno provinciali e creduloni. Informare è un dovere, essere informati un diritto. La loro negazione, lo si voglia o no, è dittatura. Una responsabilità, questa, assunta coraggiosamente in questi anni nel nostro paese dalla stampa missionaria, che si è strenuamente impegnata nel colmare un vuoto culturale. Un po’ tutti, d’altronde, abbiamo bisogno di soddisfare la necessità istintiva di scoprire qualcosa che sia più aderente alla nostra quotidianità di cittadini del mondo, qualcosa di realisticamente vero: il “villaggio globale” che è molto più grande dello Stivale o della stessa Europa.

b.    All’informazione deve poi essere associata una conoscenza della Dottrina Sociale della Chiesa che purtroppo, almeno in Italia, non è ancora entrata a pieno titolo nella formazione degli operatori pastorali. Tre le questioni centrali su cui si fonda il dettato magisteriale: la solidarietà, la sussidiarietà e la comprensione della Res publica. Quest’ultima rappresenta il terreno sul quale misurarci. Il Bene comune, in fondo, è la Terra Promessa. Esso rappresenta ciò che è condiviso e giova all’intIMG_0405era collettività. In sostanza è il campo sul quale sul quale si praticano la solidarietà e la sussidiarietà. Esso, infatti, è molto più della somma del bene delle singole parti, ma costituisce un punto di vista diverso e più alto, in cui si va oltre il gioco delle parti e si punta sulla realizzazione di quel tutto che è la realizzazione integrale, della persona umana, per quanto essa dipende dalla collettività. La posta in gioco è alta perché certi pregiudizi nei confronti dell’alterità sono il frutto di una  diffusa ed endemica “crassa ignorantia” da parte di molti fedeli rispetto a quelli che sono i dettami del Vangelo e in particolare della dottrina sociale di cui sopra. Sono vuoti da riempire invocando il dono della conversione. Vittorio Bachelet, vittima delle spietate Brigate Rosse, diceva: “Non si vince l’egoismo mostruoso che stronca la vita se non con un supplemento di amore”. Anni fa, quando molti dei nostri missionari denunciavano i meccanismi di sfruttamento della globalizzazione selvaggia nelle periferie del mondo, erano spesso tacciati di terzomondismo populista. Ora però che la crisi è diventata planetaria e che le masse sono impoverite anche in alcuni Paesi della vecchia Europa, abbiamo, per così dire, sotto gli occhi l’insostenibilità politica e sociale di un modello di sviluppo che ha mostrato tutta la sua inadeguatezza. Forse è bene rammentare che negli anni Sessanta, Settanta, Ottanta e Novanta, sembrava quasi fosse peccaminoso criticare un sistema che aveva generato in Occidente, dal punto di vista materiale, una condizione di benessere, espandendo la fascia del cosiddetto ceto medio. Eppure, allora, anche in Italia, vi erano voci fuori dal coro che avevano il coraggio di stigmatizzare l’inganno. «Spinti dal nostro feticismo produttivo – scriveva in quegli anni un coraggioso teologo, il compianto padre Ernesto Balducci – noi stiamo avanzando in regioni spaventose, quelle del benessere vuoto di ogni valore». Ecco che allora, oggi, proprio facendo tesoro dell’esperienza traumatica dei poveri, nei bassifondi della Storia, siamo chiamati, come credenti, con urgenza e temerarietà ad opporci al pensiero debole imposto dal materialismo pratico,  definendo, con ingegno e fantasia, una cultura rispettosa della dignità della persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio. «La cultura della competizione […] è condannata non solo dalla coscienza – ammoniva padre Ernesto – ma dall’istinto di sopravvivenza. I valori alternativi sono, non dico possibili, ma necessari». Del resto, perché la Storia, col suo carico di contraddizioni, riesca ad essere maestra di vita, pur passando nei resoconti della memoria in mani sempre diverse quante sono le generazioni, dovrebbe essere oggetto di un sano discernimento. Essa, infatti, continua ad essere la permanente narrazione di modelli di civilizzazione che, in fondo, hanno sempre generato una palese esclusione. Perché forse quella dei deboli e reietti d’ogni tempo è la storiaccia dei vinti, incapace d’includere nei suoi capitoli tutti i protagonisti del copione. Sì, quasi vi fosse un disfacimento per cui la periferia, ciò che è distante dal palazzo, non contasse per edificare i posteri nella perpetua memoria delle loro gesta negate. “Quando ci siamo svegliati – scrisse provocatoriamente don Lorenzo Milani – i poveri erano già partiti senza di noi!”  È drammaticamente vero, non solo in riferimento al passato, ma anche al presente che c’appartiene.  Ma queste anime dimenticate che hanno accettato l’esodo dell’emarginazione nello spazio e nel tempo, non  solo costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione mondiale,  ma ci interpellano. D’altronde, il messaggio evangelico non legittima la rassegnazione. Pertanto, dobbiamo avere l’ardire di rimboccarci le maniche con umiltà, senza rimpiangere le cipolle d’Egitto come gli ebrei quando erano nel deserto. La  tentazione, a questo punto,  potrebbe essere la delega, secondo la logica dello scaricabarili. Che vi siano, cioè, ardimentosi missionari o volontari che dir  si voglia, prodighi di benevolenze,  pronti a  rincorrerli sui sentieri di un’esistenza algida e vischiosa, fatta di paludi dove è  facile affondare. Sì, quasi la salvezza delle anime fosse solo e unicamente affare loro. Papa Francesco, però, dall’alto del suo illuminato pensiero ci ammonisce, sapendo che, in fondo, un nuovo mondo è possibile con l’impegno di tutti. Perché tutti siamo missionari.

c.    La terza  priorità deve essere quella della cooperazione, cioè dello scambio. E qui, il ragionamento ci deve portare ad andare al di là dell’accoglienza emergenziale. Si tratta, piuttosto di definire una serie di strategie che possano, per così dire, affermare la circolarità dello scambio, non solo materiale, ma anche spirituale. Qui si tratta di capire che la missione non consiste soltanto nel dare, ma anche nel ricevere. Essere cattolici, infatti, significa essere aperti per vocazione all’universalità. Ad esempio, come leggiamo nell’esortazione apostolica Pastores Dabo Vobis in riferimento al ministero presbiterale: “L’appartenenza e la dedicazione alla Chiesa particolare non rinchiudono in essa l’attività e la vita del presbitero: queste non possono affatto esservi rinchiuse, per la natura stessa sia della Chiesa particolare sia del ministero sacerdotale. Il Concilio scrive al riguardo:Il dono spirituale che i presbiteri hanno ricevuto nell’ordinazione non li prepara a una missione limitata e ristretta, bensì ad una vastissima e universale missione di salvezza, fino agli ultimi confini della terra, dato che qualunque ministero sacerdotale partecipa della stessa ampiezza universale della missione affidata da Cristo agli apostoli”. (32). Naturalmente, lo stesso discorso è estendibile ai laici che devono capire comprendere, col cuore con la mente, che nella fede siamo cittadini del mondo. Qui serve, creatività e immaginazione, investendo risorse umane, ad esempio nell’advocacy (sostenendo in tutti gli ambienti la globalizzazione dei diritti), nell’educazione alla mondialità, all’interculturalità, alla definizione di scambi che non necessariamente devono avere una matrice mercantile. A livello ecclesiale, ad esempio, chi vi parla sogna una conferenza episcopale del Mediterraneo che superi gli schemi nazionalistici e aiuti al reciproco ascolto e dialogo.

Per concludere, felicemente, questa nostra conversazione, può essere utile un accenno fugace al pensiero “Ubuntu”. Si tratta di un concetto filosofico della tradizione bantu, dalla forte valenza sociale, presente, ad esempio, nelle lingue dei popoli Zulu e Xhosa. Se provassimo a tradurlo in Italiano, potremmo dire: “io sono perché tu sei”, “una persona diventa umana attraverso altre persone”, “una persona è una persona a causa di altre persone”. Ecco perché da quelle parti si dice: “Umuntu, nigumuntu, nagamuntu”, che, nella ligua Zulu, significa: “una persona è una persona a causa di altri”, affermando così la centralità della relazione umana dal punto di vista ontologico. Ma non v’è dubbio che chi è riuscito, forse meglio di altri, a spiegare il reale significato di questo concetto ancestrale, è stato l’ex presidente sudafricano e Nobel per la Pace, Nelson Mandela. “Una persona che viaggia attraverso il nostro Paese e si ferma in un villaggio – ha commentato – non ha bisogno di chiedere cibo o acqua: subito la gente le offre del cibo, la intrattiene. Ecco, questo è un aspetto di Ubuntu, ma ce ne sono altri. Ubuntu non significa non pensare a se stessi; significa piuttosto porsi la domanda: voglio aiutare la comunità che mi sta intorno a migliorare?”. Ma per comprendere ancora meglio quanto sia forte questa dimensione relazionale all’interno di queste culture di ceppo “bantu”, è illuminante un aneddoto raccontato di un antropologo che ha svolto un’intensa ricerca su questo tema in Sudafrica. Un giorno, egli decise di mettere un cesto pieno di frutta vicino a un albero, dicendo poi a un gruppo di ragazzi che chi tra loro fosse arrivato prima avrebbe vinto tutti i frutti. Quando diede il segnale, tutti i bambini si presero per mano e corsero insieme, poi si misero in cerchio per godere comunitariamente il premio promesso. Successivamente, lo studioso chiese il motivo per cui avevano evitato la competizione, e tutti risposero insieme: “Ubuntu!”. Una saggezza ancestrale che tutto comprende, dalla forte valenza evangelica e a cui il mondo globalizzato, quello degli affari e dello spread, dovrebbe guardare maggiormente con rispetto.