“Misericordia è accoglienza”, riflessione per l’inaugurazione della Caritas di Cesena

Il 16 aprile 2016, a Cesena, è stata presentata la 1ª edizione del Dossier sulle povertà, curata dall’Osservatorio delle povertà e delle risorse della Caritas diocesana di Cesena-Sarsina, che raccoglie al suo interno vari contributi, in particolare la raccolta e l’analisi dei dati relativi all’attività del Centro di ascolto.

Nel corso dell’incontro, il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e presidente di Caritas italiana, ha proposto una riflessione “Misericordia è accoglienza”. All’appuntamento è intervenuto anche il vescovo di Cesena, monsignor Douglas Regattieri, e l’assessore ai servizi per le persone del Comune di Cesena Simona Benedetti.

 

Pubblichiamo si seguito il testo integrale dell’intervento del card.Francesco Montenegro

 

Mi piace iniziare con le parole di Paolo: “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e famigliari di Dio” [Ef. 2,19].

L’uomo è stato introdotto definitivamente nella “famiglia di Dio”, per familiarizzare sempre più col suo Dio (redenzione). Ed è questo il grande gesto di accoglienza offertoci: Dio in Cristo, ci cerca e perciò ci ama, e per così dire apre le mura della sua casa e ci fa entrare. L’uomo così finisce di essere un estraneo, e diventa “uno di casa”, anzi di più, un figlio.

Alla prima aggiungo un’altra premessa. È costitutivo dell’uomo essere in relazione con gli altri uomini. Con questo non si afferma semplicemente un fatto, che l’ uomo cioè vive con gli altri uomini. Né un bisogno, che l’uomo ha bisogno dell’uomo. Ma si dice la verità su di lui, ciò che lo fa essere ciò che è.

Ritengo importanti queste premesse perché esse ci ricordano due fondamentali verità. La prima: l’atto di “accoglienza” da parte di Dio; la seconda: la condizione relazionale che rende la persona capace di vivere con le altre persone. In sintesi: l’uomo è in relazione con Dio-Amore che lo crea, e lo pone in relazione con gli altri.

Parleremo di carità. Essa è come una pietra preziosa che ha tante facce: solidarietà, compassione, sopportazione, perdono, condivisione, misericordia, accoglienza … Se ne manca una il gioiello è ‘guasto’.

Noi in questa chiacchierata ci fermeremo sull’ accoglienza che significa fare spazio, allargare la propria tenda. L’accoglienza non è semplice un gesto che si compie ma, per noi credenti, è spiritualità di comunione. Giovanni Paolo notava: «spiritualità della comunione è capacità di vedere innanzitutto ciò che di positivo c’è nell’altro, per accoglierlo e valorizzarlo come dono di Dio: un “dono per me”».

A proposito di accoglienza, ricordiamo le parole di Gesù: “Chi accoglie voi accoglie me” (Mt 10,40),. Ero forestiero e mi avete accolto. L’avete fatto a me” (Mt 25,40).

L’ospitalità è così una dimensione della nostra vita di fede, perché Gesù ha scelto di identificarsi con i fratelli.

Enzo Bianchi su Famiglia cristiana ha scritto: “Se accettiamo di incontrare l’altro, se lo avviciniamo rispettandolo per quello che è, nella sua diversità, può divenire il nostro migliore maestro. Solo chi è diverso da noi, infatti, può prestarci occhi nuovi per guardare realtà note; solo chi ha tradizioni e abitudini diverse può aiutarci a valutare le nostre; solo chi ha patito e gioito per eventi che non hanno mai incrociato la nostra esistenza può rivelarci la portata di quanto ci accade ogni giorno; solo chi non abbiamo mai incontrato prima può stimolarci a guardare le cose in modo diverso. Così possono cadere abitudini incancrenite, situazioni paralizzate e possono essere rimessi in discussione giudizi senza appello”.

Noi siamo abitualmente tentati di rifiutare ciò che è diverso da noi e non è in sintonia con il nostro mondo, non rendendoci conto che agendo così lasciamo cadere grandi occasioni di crescita. Giovanni ha scritto (1Gv 4,20): “Se uno dice di amare Dio e non ama il fratello che vede, il diverso, in realtà non ama Dio, ma se stesso, ama la propria tranquillità”. Se si ergono paletti per garantirsi sicurezza – succede anche nelle comunità ecclesiali – la fede rischia di diventare una forma di narcisismo, di autocompiacimento. Ma perché ciò non avvenga è necessario che l’accettazione dell’altro non si limiti al rispetto formale delle regole della buona educazione, ma sia vera sul piano umano. Il nostro xenofobismo non è da curva sud, ha tante facce, spesso è opportunista o pulito solo in apparenza. Siamo capaci di nasconderlo creando allarmismi, quali la paura di malattie o problemi di sicurezza o vantando quel buonismo italiano, che fa rima con la discriminazione e lo sfruttamento (manodopera a basso costo, non rispetto delle normative contrattuali, speculazione sugli affitti). Capita che nel bar allo straniero il caffè è versato nel bicchiere di carta, mentre ai ‘bianchi’ nella tazzina di caffè o allo studente della Costa d’Avorio è rifiutata la camera perché di colore mentre era disponibile per gli altri. Platone affermava: “Lo straniero separato dai suoi concittadini e dalla sua famiglia dovrebbe ricevere un amore maggiore”.

L’ospitalità non è solo buona educazione, è soprattutto capacità di accogliere la ricchezza di stimoli che l’ospite introduce nelle nostra vita. La nostra cultura individualistica raramente accetta il diverso. La nostra cultura ci rende accoglienti/tolleranti solo con chi riesce ad adeguarsi alle nostre abitudini, ma senza creare problemi. Un giornalista ha scritto: “Aspettavamo muscoli e invece sono arrivati uomini”. Oggi si smercia la tolleranza con l’integrazione. È come se si dicesse: giacché non è possibile volersi bene, tentiamo almeno di sopportarci; è già qualcosa non odiarci e ammazzarci, e di questo dovete essercene grati. Ma questo non fa crescere in umanità. Ci rende solo tranquilli nelle nostre chiusure egoistiche. Questo però potrà portare, senza voler fare il pessimista, al bivio “tra civiltà e barbarie, tra la forza del diritto e il diritto della forza; si rischia insomma di tornare, in una parola, al Far west”. Oggi in gioco non c’è solo l’accoglienza degli immigrati, ma il modello di civiltà del futuro. La difesa degli interessi dei forti, facendo pagare il prezzo ai deboli, indebolisce la struttura della stessa società. Probabilmente, più che la paura dello straniero, l’immigrazione fa venire a noi la paura dello straniero che è in noi. Dimmi chi escludi e ti dirò chi sei.

Quando i popoli si muovono nulla resta come prima sia politicamente sia economicamente, socialmente, religiosamente. L’esodo in corso non è il “male”, ma il “sintomo” di un male più grande, di un mondo ingiusto che dimostra che l’idea di un Occidente, fulcro della civiltà, non regge più. L’Europa ha senz’altro prodotto risultati che sono patrimonio dell’intera umanità (letteratura, filosofia, arte, scienza), ma non sono pochi gli aspetti discutibili. Si riesce, per esempio, a mettere insieme l’idea di civiltà e quella di colonizzazione con i suoi perversi meccanismi economici a scapito delle economie più precarie. Come anche l’idea di giustizia e il sostegno ai regimi corrotti di quel continente. Le multinazionali – i faraoni di oggi – continuano a creare schiavi affamati, denutriti, arrabbiati (“tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti”- Dichiarazione universale dei diritti umani, 1948)). Ci siamo sempre considerati “la civiltà”, oggi questa convinzione vacilla. La migrazione sta mettendo accanto tante civiltà. Ognuno ha qualcosa da imparare e da donare agli altri.

Sino a quando l’immigrazione sarà considerata un problema di sicurezza (lo è, ma non è il solo!), sarà sempre più oscurato l’aspetto umanitario e si terrà sempre meno conto dei Diritti Umani. E dire che in Europa è stata inventata la democrazia, e in Italia è nato il “Diritto romano”.

L’Europa pensa di difendersi considerando i suoi confini come invalicabili, senza però tener conto che è proprio della globalizzazione considerare le frontiere destinate a essere varcate e superate. Oggi con un semplice clic del mouse si spostano ingenti capitali e merci da una parte all’altra del mondo, ma stranamente si rifiuta lo scambio di uomini, necessario per l’ attualizzazione di detti scambi.

Accogliere non significa assimilare, che cioè la minoranza si adegua alla cultura dominante. Non possiamo chiedere agli immigrati di assimilarsi a noi, perché il farlo significherebbe la perdita della loro identità nazionale. L’accoglienza richiede l’ integrazione. La stessa parola dice dare e ricevere. Essa ha dei ritmi lunghi, è un percorso più che un atteggiamento. Non è solo riuscire a convivere più o meno bene, ma è gestire il nuovo, costruire insieme il futuro.

C’è integrazione quando ci si sa confrontare e accettare valori e modelli di comportamento diversi, e questo sia da parte dell’ immigrato che di chi li ospita. L’integrazione è incrocio di culture non giustapposizione, cioè nulla può essere dato come “definitivamente assodato”. Viviamo in una società che sta evolvendosi così velocemente che non c’è nulla di più anacronistico del riflusso e della chiusura.

Come nessuno può appropriarsi dei beni come la terra, l’aria, il clima, l’acqua, perché sono beni dell’intera umanità, così è per i diritti fondamentali, le lingue, le culture, le religioni. Il non rispetto di ciò sfalda la convivenza umana e rende difficile la vita, soprattutto dei più deboli.

Circa 232 milioni di uomini si spostano nel mondo (sesto continente), e lo fanno perché sono alla ricerca di sicurezza, di lavoro, di un vivere dignitoso, o perché sono perseguitati, affamati o sfruttati. La vita nella loro terra è inferno. Inferno per inferno, – essi dicono – è la stessa cosa, il viaggio resta l’unica possibilità che vale la pena rischiare.

“Accogliere è sempre rischiare, disturba sempre. Ma Gesù non verrà forse a disturbarci nelle nostre abitudini, nei nostri comodi, nelle nostre stanchezze? Bisogna che siamo continuamente stimolati per non cadere in un bisogno di sicurezza e di comodo, e per continuare a camminare dalla schiavitù del peccato e dell’egoismo verso la terra promessa della liberazione” (J. Vanier).

L’immigrazione non è solo un problema politico, è questione morale. Si tratta di sapere chi ha il diritto di vivere e chi no, se accumulare e il consumismo sono il senso della vita, se il successo e la prepotenza possono essere i connotati di una società civile.

Il Cristiano, come Abramo sulla soglia della sua tenda a Mamre, deve rimanere l’uomo della soglia, (Cf Gn 18,l-10a), capace di accogliere lo sconosciuto, che deve riconoscere come suo Signore. L’altro porta sempre un dono, lui stesso è dono di vita: “Tornerò da te tra un anno e Sara, tua moglie, avrà un figlio”. È la stessa attenzione e lo stesso stile del Samaritano che si fa prossimo a chi soffre, e lo fa in silenzio ma con competenza, con umiltà. Essere uomini della soglia per evitare che la porta si chiuda significa invitare quanti sono fuori ad entrare, ma anche dire a coloro che sono dentro la Chiesa: “Questa è la porta, uscite perché è il mondo il luogo dove il risorto vi manda!”

Gioire… condividere… ascoltare… Ecco l’Accoglienza! Le tre cose vanno insieme: se condivido solo la gioia, l’altro resta a pancia vuota; se condivido solo il cibo, l’altro resta col cuore vuoto! Nell’incontro con l’altro, l’importante è che attraverso le mie parole o gesti, lui possa sentirsi un po’ liberato di qualcosa che lo impedisce di vivere, di essere se stesso. Mettersi al servizio dell’altro entrando in rapporto con lui è costruire fraternità.

È necessario capire che invece l’accoglienza e l’ospitalità, se si sostituiscono alla preoccupazione di difendersi, potrebbero diventare espressione di una convivenza più matura e serena e segnare l’inizio di uno stile di vita più umano, e più arricchente per il nostro futuro, minacciato oggi dalla diffidenza e dall’ ostilità per tutto ciò che sembra turbare le nostre stanche abitudini di benessere.

Alla politica di “immigrazione-zero” si accompagna la realtà di un’ immigrazione a zero-diritti. Questo vuol dire che il respingimento rischia di far diventare clandestini gli immigrati. Questi uomini – il Papa la chiama schiavitù moderna –servono a far arricchire i proprietari italiani che li pagano con stipendi da fame, li fanno vivere in condizioni disumane, in case diroccate, ammassati, senza acqua ed elettricità, con affitti alti. Condizioni che poi li portano ad ammalarsi, senza potersi permettere cure adeguate.

Il credente sa che la sua fede gli chiede di osare la giustizia, la pace, la solidarietà. Quando i popoli si spostano sono come “una parola di Dio che si leva dalla storia”, sono un urlo che giudica, esorta, chiede e spinge verso nuove terre promesse.

Con l’incarnazione tutto è ormai sacro (luogo degno di Dio): non solo il tempio, ma anche la baracca, la strada, l’ospedale, il barcone, l’emarginazione, la prigione. Dice Frei Betto: “Noi lo cerchiamo nel tempio, Lui si trova nella stalla; lo cerchiamo tra i sacerdoti, si trova in mezzo ai peccatori; lo cerchiamo libero, è prigioniero; lo cerchiamo rivestito di gloria, è sulla croce ricoperto di sangue. E’ seduto sulle scale delle nostre portinerie, aspettando un tozzo di pane”. L’immigrazione va considerata come un “luogo teologico”, un luogo frequentato da Dio, luogo in cui certamente possiamo trovarLo e incontrarLo.

È tempo che per gli stranieri oltre che dare aiuti, si rivendichi giustizia. Con i soli aiuti uno straniero acquista una mentalità da disuguale, da assistito. In un contesto di giustizia lo straniero si sente più uguale e impara ad essere creativo, a mantenere il proprio equilibrio personale e a salvaguardare la propria identità culturale.

Il Papa a Lampedusa è stato chiaro, ha detto: “Sono venuto a risvegliare le vostre coscienze”. Che spesso sono rinchiuse in “bolle di sapone”! “Siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci sentiamo a posto …”. Chiniamoci “su chi ha bisogno per tendergli la mano, senza calcoli, senza timore, con tenerezza e comprensione”.

Non possiamo fingere di non sapere che la nostra società è composta da due classi: i turisti e i migranti; chi ha più pranzi che appetito, e chi ha più appetito che pranzi. Lo sappiamo bene che l’emigrazione è il tentativo di fuggire «dal peggio verso il meglio», e dalla loro fame al nostro piatto.

Leggo anche a voi, come faccio normalmente, alcune risposte date dagli alunni di scuole elementari e medie italiane (molti/alcuni avranno o frequentavano il catechismo!) a una ricerca fatta dall’ antropologa Paola Tabet. Il tema loro dato era: “Se i tuoi genitori fossero neri”. Le risposte sono state: “Li troverei disgustosi”; “Io avrei paura per sempre”; “Io proverei a dipingerli con un colore chiaro come il rosa e almeno diventerebbero di pelle italiana”; “Forse sarebbero poveri, quindi assassini, delinquenti, ladri e malfattori e li disprezzerei”; “Li terrei come schiavi”; “Non avrei più gli astucci di valore e anche le penne, i pennarelli, le matite, il righello, la cartella”; “Fossi nero mi ammazzerei”; “Mi butterei dal terzo piano, perché è meglio che mi butto che rovinarmi il mio nome”. “Io li voglio bianchi. Mio papà mi ha sempre detto che gli uomini sono tutti uguali però la televisione mi fa capire che i neri uccidono ed io mi spavento ancora di più”.

Paolo VI descriveva così le aspirazioni degli uomini di oggi: «essere affrancati dalla miseria, garantire in maniera più sicura la propria sussistenza, la salute, un’occupazione stabile; una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori da ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la dignità umana; godere di una maggiore istruzione; in una parola, fare conoscere e avere di più, per essere di più» (PP 6)”.

E dire che dell’immigrazione l’Italia ha economicamente, ma non solo, molto bisogno. Stiamo divenendo una popolazione vecchia non produttiva … Se facciamo i conti arriviamo ai seguenti risultati: il “pil dell’ immigrazione” è pari a 123 miliardi l’8,8% della ricchezza italiana. Noi italiani con loro ci guadagniamo 3,9 miliardi l’anno. Nel 2013 le rimesse che gli immigrati hanno inviato nella loro patria sono state pari a 5,5 miliardi. Le imprese create da immigrati sono 497 mila (l’8,2% del totale). Pagano 8,9 miliardi con i quali ricevano mensilmente la pensione 640.000 anziani. 830 mila badanti accudiscono circa un milione di non autosufficienti che corrispondono al quadruplo dei ricoverati nelle strutture pubbliche. Se dovesse occuparsene lo Stato, ci vorrebbe un investimento complessivo nei primi cinque anni di oltre 250 miliardi.

Denunce penali: – 6,20 a carico degli stranieri. + 28% degli italiani

Il 53% sono cristiani (2.700.000). 1.600.000 musulmani.

Chiudo con tre citazioni.

Kofi Annan ha parlato così al parlamento europeo: “Un’Europa chiusa sarebbe un’Europa più mediocre, più povera, più debole, più vecchia. Un’Europa aperta sarà anche un’Europa più equa, più ricca, più forte, più giovane, purché sia un’Europa che gestisce bene l’immigrazione”.

Daghmoumi Abdelkader, poeta marocchino, scrive: “Noi siamo i figli della sabbia, / del sole e dei fiori, / siamo i figli del mare. / siamo venuti dai campi e dalle grandi città. / noi ragazzi dai mille sogni spezzati, / infranti e traditi, / col cuore tenero e con gli occhi asciutti e bruni; / noi dalla chioma color pece, / siamo venuti a ballare nelle vostre piazze luminose, / nelle vostre case. / siamo venuti a ballare per i vostri occhi / stanchi e immobili come specchi. / siamo bambini nati da gocce di acqua di un fiume in secca / che fino a ieri scorreva lento. / siamo spighe di grano piene e forti / siamo venuti a cantarvi le nostre canzoni d’amore, / canzoni dolci come mandorle e miele. / Le canteremo ad alta voce / finché toccheremo i vostri cuori / per poi cantarle piano, piano, / assieme, nelle vostre case, nelle vostre piazze, / nelle vostre città.

“In quel giorno ci sarà una strada dall’ Egitto verso l’Assiria; l’Assiro andrà in Egitto e l’Egiziano in Assiria; gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri. In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. Li benedirà il Signore degli eserciti: “Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità” (Is. 19,23-25).