Ceneri: card. Montenegro «il digiuno e la preghiera diventino gesto di carità»

Mercoledì 1 marzo con la celebrazione delle Sacre Ceneri ha avuto inizio la Quaresima. L’arcivescovo card. Francesco Montenegro ha presieduto il sacro rito nella chiesa Sant’Alfonso di Agrigento. Di seguito vi proponiamo l’Omelia che il cardinale ha tenuto durante la Santa Messa. Un’Omelia nella quale l’arcivescovo ha richiamato i fedeli alla vera essenza delle mortificazioni del periodo quaresimale, privazioni che devono trasformarsi in amore concreto e solidale per i poveri.

«Comincia il tempo favorevole della Quaresima, tempo di misericordia e di perdono. Il Papa la definisce: un nuovo inizio. La Chiesa, in questo tempo speciale, aiutandoci e arricchendoci con la Parola, ci invita alla conversione. Nella prima lettura, infatti, le prime parole sono state: “Ritornate a me con tutto il cuore!”. Si voltano le spalle a Dio, ci si allontana da Lui e perciò dalla verità della vita quando c’è il peccato».

«Ecco perché, ricevendo la cenere, ci sentiremo dire: “convertiti e credi al Vangelo”. La Quaresima – ha proseguito l’arcivescovo – accompagnandoci alla Pasqua, ci aiuterà a rientrare nel progetto dell’amore di Dio per noi. Per questo motivo non va considerata come una parentesi chiusa in sé stessa, o come un periodo di tristezza e di mortificazione; viverla così significa avere una visione sbagliata della vita e della spiritualità cristiana. Sottolineo ancora questo aspetto perché, come dicevo nell’omelia di S. Gerlando, ‘nella nostra terra si respira una fede triste e pesante’. La Quaresima propone un cammino di liberazione, di ritorno al tempo del fidanzamento e perciò di incontro con Dio e coi fratelli. Ricevere le ceneri oggi significa riconoscersi creature, fatte di terra e destinate alla terra, sentirsi peccatori bisognosi della misericordia di Dio per risentire la gioia di vivere.

Nel Vangelo è scritto: “Quando digiunate, non assumete aria malinconica… Quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo ti ricompenserà”. Come? ci chiediamo. Donandoci il Suo amore e il Suo perdono.

La Quaresima è stata paragonata al tempo della potatura. La Chiesa in questo tempo ci mette a disposizione, mi viene da dire, gli attrezzi necessari per eliminare i rami secchi dell’abitudine e della stanchezza del credere, di una fede che non tocca la nostra quotidianità, della mediocrità, dell’apatia, dell’indifferenza, delle invidie, dei pregiudizi, del rancore, dell’egoismo. Ci dà la possibilità che ognuno si riconcili con se stesso: ritengo che oltre a fare qualche opera di carità o di mortificazione (quelli che chiamiamo fioretti), in questo tempo quaresimale potremmo e dovremmo ritrovare la verità di noi stessi e di vedere la vita e di vederci con gli occhi di Dio. È un impegno che, come risultato, ci darà la possibilità dopo esserci riconciliati con noi stessi, di riconciliarci coi fratelli, soprattutto con quanti che, allungando l’interminabile fila dei Lazzaro, continuano a innalzare il loro grido di dolore e di disperazione. Mons. Bello diceva che la quaresima va dal giorno delle ceneri, quando sul capo viene messo uno strano shampoo – le ceneri – al giorno dell’acqua ai piedi, non sui propri piedi, ma su quelli degli altri.

La chiesa in questo cammino di conversione e di proposta di vita nuova ci invita ad ‘approfittare’ (sono gli attrezzi necessari) della preghiera, del digiuno e della carità. S. Pietro Crisologo a proposito diceva: “Queste tre cose, preghiera, digiuno, misericordia, sono una cosa sola e ricevono vita l’una dall’altra. Il digiuno è l’anima della preghiera e la misericordia è la vita del digiuno. Nessuno le divida, perché non riescono a stare separate. Colui che ne ha solamente una o non le ha tutte e tre insieme, non ha niente. Perciò chi prega digiuni. Chi digiuna abbia misericordia” (Discorso 43).

La preghiera e il digiuno mentre da una parte portano alle opere di carità, dall’altra devono essere accompagnate da queste necessariamente; cioè la conversione deve necessariamente concretizzarsi in disponibilità e solidarietà. Dice Isaia: “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo?” (58, 6).

Ci viene chiesto di limitarci nel cibo e di vivere la sobrietà perché non raramente il nostro modo di vivere può essere un insulto alla povertà dei tanti fratelli che soffrono la fame, mentre ogni privazione, anche piccola, potrebbe essere una possibilità di vita per loro. Questo vale per noi come singoli, ma anche per noi come comunità. È scandaloso oggi vedere soldi sprecati per manifestazioni che tante volte sembrano apparentemente religiose, nonostante al loro centro ci siano i santi: mi riferisco alle feste patronali con i loro giochi d’artificio e altri ingredienti. Non basta che noi gridiamo che tocca a chi amministra la cosa pubblica la responsabilità di cambiare le leggi e permettere a tutti di avere il necessario, ma, mi chiedo, noi non abbiamo il vangelo che parla chiaro? Certamente se il denaro è tolto a chi è in stato di necessità, Dio non può gradire le così dette feste religiose. Vi leggo solo qualche numero che ci faccia pensare: il cibo che in Italia si butta nelle pattumiere è il corrispettivo di 8,7 miliardi di euro e una persona su dieci sopravvive con meno di 2 dollari al giorno. Se noi dovessimo sommare il denaro speso per le feste patronali a che cifra arriveremmo? Sono molti i nostri connazionali, non solo gli immigrati, che cercano il cibo nei cassonetti della spazzatura!

La parola di Dio ci dice che la mortificazione per la mortificazione non serve, a Dio non interessa più di tanto che io mangi un dolce in meno, non mangi la carne o che non fumi una sigaretta se poi disprezzo, per esempio, immigrati e poveri. A Lui interessa che i nostri fioretti si trasformino in amore concreto e solidale per i poveri. Ci si priva della carne, del dolce, della sigaretta perché il risparmio sia messo a disposizione di chi non riesce a mangiare tutti i giorni. Perché non proviamo a mettere nel nostro salvadanaio il corrispettivo dei tanti fioretti giornalieri, in modo da arrivare a Pasqua, con tale segno concreto, che è importante non tanto per la cifra risparmiata nel periodo quaresimale ma per il fatto che abbiamo ricordato ogni giorno i poveri, cioè Gesù del quale loro sono sacramento. Il digiuno e la preghiera, che diventano gesto di carità, ci aiutano a riconoscere il volto di Dio. Come nel volto del Crocifisso si ritrovano i lineamenti dei poveri, dei malati e degli immigrati, degli scartati e degli invisibili, così nei loro volti incontreremo il Suo volto. Non dimentichiamo che è stato Lui stesso a darci appuntamento dove c’è un uomo che soffre, perché là Lui c’è sempre. Il Papa, nel suo messaggio per la Quaresima, richiamando la storia di Lazzaro e del ricco, ci ricorda che l’altro è dono. Scrive che “il povero, seduto alla porta del ricco, non è un fastidioso ingombro, ma un appello a convertirsi e a cambiare vita”. Ogni uomo è per noi un dono che merita accoglienza, rispetto, amore. Leggevo: “I poveri spesso si siedono alle porte delle chiese. In realtà, essi non sono seduti davanti alla porta, ma sono loro la porta per arrivare a Dio, questo Dio che ci chiede sempre: “Dov’è tuo fratello?” I poveri sono la Porta santa, la più santa”. Mi permetto rinnovarvi un invito fatto in altre occasioni: mentre nelle chiese si svolgono preghiere come la via crucis o l’adorazione eucaristica, a turno, negli stessi orari, qualcuno vada a trovare i malati o a fare compagnia a chi è solo. In questa maniera la preghiera e la carità si incontrano e il Cristo oggi sofferente continuerà a trovarsi accanto il cireneo. Lasciamoci attrarre e stupire da Cristo. Approfittiamo perciò delle indicazioni che la Chiesa ci offre per incontrarLo: il Libro sacro, il pane della vita e i poveri. Lo Spirito Santo – ha concluso l’arcivescovo – ci guidi a compiere un vero cammino di conversione. Preghiamo gli uni per gli altri affinché, incontrando il Risorto, sappiamo aprire le nostre porte ai fratelli come singoli e come comunità alle altre comunità. Vivremo e testimonieremo così la gioia della Pasqua».