CELEBRATO IL GIUBILEO DIOCESANO AI PIEDI DELLA “MAMMA MALATA”

Circa tre mila fedeli ai piedi della Cattedrale di Agrigento non si vedevano dai tempi della visita di Papa Giovanni Paolo II. L’occasione per rivedere la chiesa agrigentina ai piedi della sua “mamma” malata è stata la celebrazione del Giubileo diocesano che ha visto accorrere fedeli provenienti da tutta la diocesi. Con una processione che si è snodata da piazza Vittorio Emanuele salendo per la via Gioeni e la via Plebis Rea, tra canti e preghiere si ci è ritrovati in piazza Bibbiria per un momento penitenziale a cui è seguito l’attraversamento della Porta Santa. Una porta un po’ atipica rispetto a quelle che in questi mesi sono state aperte e varcate. Una porta non all’interno di una chiesa ma per strada, una porta doppiamente simbolica: dal suo passaggio si giunge alla Cattedrale di Agrigento chiusa da cinque anni per questioni di sicurezza dovuta alla fragilità del pendio su cui poggia e dal suo passaggio si mette in evidenza il nostro essere chiesa in uscita che abita le strade ed i luoghi del vivere quotidiano portando il messaggio di un mondo diverso fondato sull’amore.

Ad accogliere i fedeli il coro diocesano in una piazza don Minzoni parata a festa ed una via Duomo mai vista senza auto. Una celebrazione eucaristica in cui affidandosi alla Madonna la Chiesa agrigentina ha ancora una volta accolto le parole dell’Arcivescovo, card.Francesco Montenegro, che risuonano come un invito a non avere paura, ad avere coraggio; sono un invito a laici, sacerdoti, diaconi, religiosi e religiose ad essere chiesa sempre più in uscita. Con il sole che tramontava dietro il Seminario vescovile ai piedi di una Cattedrale la cui facciata, al sole del tramonto, assumeva riflessi dorati, la chiesa che è in Agrigento ha voluto chiedere misericordia al Padre per i giorni a venire e manifestare tutta la propria vicinanza alla Chiesa Madre della Diocesi.

IL PASSAGGIO DELLA PORTA SANTA (VIDEO)

 

IL VIDEO INTEGRALE DELLA MESSA AI PIEDI DELLA CATEDRALE

https://youtu.be/t2ysOCqcjb8?t=1959

 

IL TESTO  DELL’OMELIA DEL CARDINALE FRANCESCO MONTENEGRO

Tra i segni del Giubileo l’apertura della Porta Santa ha un fortissimo valore simbolico ed evocativo.
Nell’Antico Testamento la porta del Tempio di Gerusalemme era la soglia da varcare per lasciare lo spazio profano del mondo ed entrare nello spazio in cui si manifesta la presenza di Dio.
Nel Nuovo Testamento Cristo stesso è la porta che consente l’accesso al Padre. Lui, volto della misericordia di Dio, è venuto a cercare chi era perduto per ricondurre tutti nella casa del Padre. Ha sconfitto definitivamente le porte dell’inferno, che non potranno mai prevalere sulla Chiesa nata dalla Croce e dal dono dello Spirito a Pentecoste.
Cristo alla Chiesa ha affidato il “potere delle chiavi”, il potere cioè di aprire e chiudere le porte della salvezza. Il Suo è un invito, anzi un comando, perché pensiamo e amiamo con la mente e il cuore di Dio, che vuole che tutti gli uomini siano salvi. Affidando agli apostoli il potere di legare e sciogliere, Cristo non li ha costituiti giudici della giustizia umana che dà a ciascuno secondo le proprie opere, ma li ha resi partecipi della misericordia di Dio che dà più di quanto possiamo sperare e immaginare.
Oggi facendo il Giubileo della Diocesi, celebriamo – pur se con qualche giorno di ritardo – la Festa della Dedicazione della Cattedrale, ci ritroviamo davanti a un segno apparentemente contraddittorio: la porta chiusa della nostra Chiesa Madre, posta su una collina che vacilla.
Leggo questo segno alla luce della riflessione che come Chiesa Italiana – e, noi, come Chiesa Agrigentina – stiamo portando avanti in questo tempo di profondi cambiamenti culturali, sociali ed ecclesiali. Raccogliendo la spinta di Papa Francesco, dei due Sinodi sulla famiglia, del Convegno Ecclesiale di Firenze, dei fermenti di rinnovamento emersi dal confronto diocesano, sento di dire a me e a ciascuno di voi due cose, che desidero che consideriate come le due consegne del Giubileo che stiamo celebrando.
La prima. Come può vacillare la collina sulla quale la nostra Cattedrale è costruita, così possono entrare in crisi tante strutture e tante consuetudini che finora hanno segnato l’identità e il cammino delle nostre comunità ecclesiali, ma non può venire meno, la roccia su cui è edificata la Chiesa. Questo significa che dobbiamo superare la tentazione di chiudere la vita e la missione delle comunità negli spazi che finora abbiamo considerato sacri, ma che forse paralizzano la nostra capacità di “uscire” per “abitare” e “trasfigurare” tutti gli altri spazi che, al contrario, abbiamo ritenuto profani.
Preoccupati di riempire le nostre chiese, non abbiamo saputo raggiungere le tante case; abbiamo catechizzato chi – magari solo per tradizione – ci ha richiesto i sacramenti, ma abbiamo annunciato meno il Vangelo a chi abbiamo considerato “lontano”; siamo stati pronti a formulare e imporre le regole etiche e le norme legali di un cristianesimo ideale, ma non sempre abbiamo saputo incontrare le storie delle persone che ci vivono accanto, spesso drammatiche, ferite, illuse e disperate.
Mi auguro che in quest’ultimo scorcio di Giubileo che ci resta, riusciamo a trovare il tempo e l’onestà per un serio esame di coscienza e una sincera conversione. Consapevoli però che certe forme del nostro cristianesimo e certe abitudini consolidate delle nostre tradizioni non sono le migliori o che, se lo sono state in passato, non continuano a esserlo ancora e per sempre. Devono essere ripensate con libertà e coraggio, perché non diventano ostacoli, ma piuttosto favoriscano l’incontro degli uomini e delle donne di oggi con Cristo e con il suo Vangelo.
La seconda considerazione è che possono restare chiuse le porte dell’edificio materiale, ma non possiamo continuare a mantenere certe forme di chiusura sia a livello personale che comunitario. Abbiamo scelto come tema di questo Giubileo diocesano ciò che Giovanni scrive nel suo Vangelo per descrivere l’azione di Gesù risorto: «Venne, a porte chiuse, e stette in mezzo» (Gv 20,26).
Questo riferimento ci riporta al cenacolo. Le “porte chiuse” sono le porte della paura, che distoglie dal seguire il Maestro nella via di un amore capace di spingersi fino al dono della vita. Sono le porte del sospetto, che, perché abbiamo anteposto l’interesse personale al bene comune, fa dubitare degli altri e persino di se stessi: “Sono forse io, Signore?”». Sono quelle della presunzione, che ci fa sentire migliori degli altri e ci spinge a cercare i primi posti. E poi sono anche le “porte chiuse” dell’incredulità, quella di Tommaso che non crede perché non vede e non tocca.
Nella forza della Pasqua Gesù sfonda queste “porte chiuse” e si mette in mezzo ai suoi, portando il dono della pace e insegnandoci uno stile nuovo di vivere i nostri rapporti. Uno stile capace di riconoscere i propri limiti per accettare anche quelli degli altri; a partire dal coraggio di scegliere l’ultimo posto per farsi servi dei fratelli; a partire dalla disponibilità al perdono per imparare ad accogliere tutti senza riserve e senza condizioni.
Ciò significa la porta chiusa della nostra cattedrale posta su questa collina vacillante. Continueremo a impegnarci con tutte le forze per salvaguardare questo bene storico, artistico e simbolico, facendoci però provocare da questo segno di contraddizione. In esso troviamo il significato di ciò che Papa Francesco sottolinea spesso: il tempo è superiore allo spazio. Ciò significa che dobbiamo superare la tentazione di sentirci sicuri nelle nostre strutture ecclesiali per avviare percorsi di riscatto e di promozione della persona e del territorio. È questo il primo compito di una Chiesa che si pone in atteggiamento “giubilare”, perché il Giubileo è il tempo di liberazione da ogni forma di schiavitù.
Anche Israele, convocato per la prima volta al ritorno dall’esilio, non è potuta entrare nel Tempio di Gerusalemme, non ancora ricostruito. Ce l’ha ricordato la prima lettura. Lo scenario descritto dal libro di Neemia sembra identico al nostro: l’assemblea si raduna «sulla piazza davanti alla porta», attorno al sacerdote Esdra che «stava sopra una tribuna di legno, che avevano costruito per l’occorrenza».
Questa esperienza di fede ai piedi del Tempio inagibile fu importante per Israele, tanto da segnare l’inizio di una nuova fase della sua storia. Occorreva ricostruire un tempio e un’intera città, su ruderi che ricordavano la memoria del passato ma che rischiavano di bloccare nuove forme di crescita e di sviluppo. Ma soprattutto occorreva ricostruire la coscienza di un popolo. Anche per noi il Giubileo costituisce un po’ il ritorno da un esilio e l’esigenza di riappropriarci di un’identità cristiana capace di confrontarsi con le diversità e di misurarsi col mondo, quello sconfinato della terra e quello circoscritto del nostro territorio.
Cogliamo perciò da questa situazione gli elementi essenziali per una nuova coscienza: questo deve essere il frutto del Giubileo della Misericordia.
All’assemblea di Gerusalemme (prima lettura) c’è un popolo disposto ad ascoltare e a ripartire insieme. Non c’è un tempio nel quale radunarsi, ma c’è una legge che unisce anche fuori di qualsiasi struttura materiale. Non c’è confusione di identità, ma ognuno – sacerdoti, scribi, leviti e assemblea – ha il proprio ruolo e fa la sua parte. Non c’è contrapposizione di poteri – spirituale e temporale, religioso e politico – ma intesa di servizi complementari tra Neemia il governatore ed Esdra sacerdote e scriba.
È il ritratto di una comunità viva che non si ferma a piangersi addosso sulle sue rovine. Piange – sì –per la consapevolezza dei propri errori, ma si alza in piedi per riappropriarsi della sua dignità, tendere l’orecchio alla Parola che interpella, innalzare le mani per aprirsi alla salvezza che viene dall’alto, inginocchiarsi per riconoscere la signoria di Dio. E infine festeggiare la vita nuova, da condividere con quelli che hanno perso tutto e non hanno più nulla.
Il vero edificio di Dio è la comunità – ci ha ricordato la seconda lettura – ma a condizione che non si dimentichi che l’unico fondamento è Gesù Cristo, e che ciascuno senta tutta la responsabilità di continuare a costruire con pazienza e perseveranza, insieme agli altri, su l’unico fondamento, Cristo, continuando ad aprire anche le porte più resistenti e impraticabili.
Le prime porte da riaprire sono quelle della comunità familiare ed ecclesiale, perché in queste due esperienze si apprendono le regole della vita sociale. Papa Francesco ne ha indicato la strada nell’Amoris Laetitia e nella Evangelii Gaudium, che dovremo tenere presenti nel ripensare i percorsi pastorali della nostra diocesi.
Questo è quanto ci siamo sforzati di imprimere nei piani pastorali diocesani degli ultimi anni. In particolare, nel biennio trascorso abbiamo cercato di riflettere sulle esigenze della comunione e della missione e sulle scelte che queste esigenze richiedono. Siamo ora ancor di più chiamati a impegnarci per dare un volto nuovo alle nostre comunità i, rivedendo la presenza e l’azione delle nostre parrocchie nel nostro territorio, quale impegno concreto di questo Giubileo Straordinario.
Stiamo preparando un Documento-base che segnerà il cammino della Chiesa Agrigentina nei prossimi anni e che presto avrò il piacere di consegnarvi. Non vi offrirò ricette preconfezionate o norme da seguire, ma spunti per creare alleanze tra le nostre parrocchie e preparare insieme un servizio più credibile ed efficace nell’annuncio del Vangelo, nel servizio della carità, nello slancio della missione, nella bellezza della comunione. Continueremo il nostro cammino, ricchi dell’ esperienza maturata in questi anni. Chiederò a tutti, continuo a ripeterlo, un avvicinamento progressivo tra le nostre comunità perché, superando ogni forma di chiusura, usciamo fuori dai nostri confini e mettiamo insieme le nostre migliori energie per il bene di questa Chiesa e di questo territorio.
Gerlando e Libertino che hanno traghettato la Chiesa Agrigentina nei grandi rinnovamenti dei millenni passati, ci aiutino ad avere intelligenza, saggezza, lungimiranza e disponibilità, per continuare a impregnare di Vangelo la storia ricca e martoriata della nostra terra.
La Vergine Maria Assunta, a cui la nostra Cattedrale è dedicata, ci insegni a sollevare in alto il nostro sguardo, per attendere e preparare i cieli nuovi e la nuova terra nei quali avrà stabile dimora la giustizia (cf 2Pt 3,13).
Coraggio, allora, e buon cammino a tutti!